Non credeva ai suoi sensi, quasi fosse drogato o sotto effetto di qualche maleficio. Tutto sembrava ovattato, sminuito. Ogni percezione.
Ciò che era appena successo non poteva essere in alcun modo la realtà.
Poi vide gli occhi del fratello di lei, quelli dei suoi cortigiani, occhi ove leggere disperazione e smarrimento era facile anche per un analfabeta sentimentale.
Il suo pensiero andò subito alla prima volta che si videro.
Non sarebbe potuto succedere prima: al momento della sua partenza lei non era ancora nata e lui non aveva mai fatto ritorno a quella che per i primi quindici anni della sua vita era stata la sua Patria.
Cosa ci faceva una persona di quel rango e quell’importanza in mezzo ad una manica di nobili di umili origini nel migliore dei casi e briganti disonesti e falliti nel peggiore?
Sì, la Ventura, il ravvivare e rimescolare la linfa di Caponord.
Ma avrebbe potuto mandare qualunque nobilotto in sua vece, mentre continuava a svolgere le sue mansioni, magari un altro Golova Volk della sua stirpe, per rimarcare quanto ci tenesse o magari un esperto Krovimante per cercare eventuali proseliti da far entrare in questa rinomata cerchia di tatuatori.
Invece, dalla prima volta che ebbe modo di sentirla parlare e parlarci, capii che ciò che animava quella donna e molte altre personalità che conobbe in quei primi giorni di Ventura, non era il mero dovere di presenziare ad un evento pubblico più o meno importante, quanto il desiderio di scremare il popolo e trovare persone fidate e di un qualsivoglia talento, su cui basare la prosperità della propria Corte per gli anni a venire.
Ne prese subito in simpatia i suoi modi diretti e si arrogava il pensiero che ciò fosse ricambiato. Se non altro, la Zarina sembrava trascorrere volentieri il tempo con quell’uomo non più nel fiore degli anni e, a lungo andare, sembrava quasi che, in certe occasioni gravi e d’emergenza, si intendessero con lo sguardo, nemmeno si conoscessero da lustri.
Poi, con la mente, andò avanti veloce fino agli ultimi fatti occorsi, in particolare al colloquio di poche ore prima, quello stesso pomeriggio, alla discussione sul potere del Campo dei Miracoli. Su quale energia lo animi e quale tipo di contropartita richieda.
Sì, perché “nulla è senza conseguenze” disse prima di alzarsi e dedicarsi ad alcune faccende della corte del Lupo. Di lì a poco, prima di morire, le energie invisibili che comandano il mondo le avrebbero fatto un amaro scherzo, facendole vedere il fratello cadere per mano di crudeli e invasati sicari e tornare dopo alcuni giri di clessidra tra i vivi proprio grazie a quello stesso Campo.
Adesso Iker era accodato alla mesta processione che scendeva nella cripta, in un oscuro budello serpeggiante sotto la magione estiva dello Zar. Finchè non la vide, sdraiata, immobile come solo corpo morto può essere.
“Questo tipo di fenomeno prende il nome di Borborigmi”
Non fece in tempo ad abituarsi a questa visione che dalle tenebre comparve il vedovo. Furente. Non più umano, se mai, da quando lo vide la prima volta, lo fosse mai stato.
Giurante vendetta su coloro che si erano azzardati a renderlo solo al mondo, mentre qualcosa lo chiamava da fuori. Qualcosa di dolce e vietato. Qualcosa che non avrebbe dovuto poter essere usata come richiamo per una creatura di buon cuore e saldi principi come lo Zar.
“Un cuore umano spesso rappresentato cinto da catene, Hidalgo Iker…”
Era lì, dietro a Jean Claude, a tentare di rallentare il Signore di quei luoghi, mentre i suoi compagni stavano cercando di evitare che questi cadesse in un subdolo tranello.
La Sorte li aiutò e fece sì che lo Zar potesse trarre solo il bene da quel sorso madido di conseguenze.
“State producendo un numero di ipotesi ragguardevole e, sono certa, almeno una o due di queste sono sicuramente vere… Dovete solo capire quali…”.
Iniziò la corsa forsennata, stare dietro a quell’uomo, nonostante l’età forse solo in apparenza avanzata, era un’impresa per un uomo più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Quando poi questi sparì in una nube di fumo, con il poco fiato che gli era rimasto accelerò ed entrò attraverso la minuscola porta lasciata aperta, saltando in corsa e salendo la ripida scalinata a due a due. Lasciando dietro sé il resto del gruppo che era uscito ad aiutare lo Zar.
“Sì, potete fare la domanda, ma non vi garantisco il non incenerimento seguente, qualora lo reputi necessario….”
Vedeva icore immonda sversare dalle profonde ferite della Piaga, distante solo pochi passi, mentre due mannari svelti come fulmini seminavano il panico portando via ciò che cercavano e deviati armigeri facevano da scorta, creando un quadro dalle tinte rosso sangue.
“Il SANGUE è SANGUE. Non dimenticarlo mai. Puoi andare dell’altro capo del mondo, cambiare nome, fingerti qualcun altro, ma il tuo SANGUE…. Quello non lo puoi cambiare…”
Ma il suo pensiero era sempre fisso a quella donna che la sera prima, mentre sentiva la vita scivolar via dalle sue candide mani, aveva chiesto che anche lui fosse al suo capezzale. Agli insegnamenti che aveva cercato di impartire ai suoi gregari più fidati, sperando di prepararli in modo adeguato ad ogni sfida che avrebbero potuto affrontare.
Ai suoi nipoti e compagni di Ventura stretti tra le braccia e rincuorati come possibile. Li aveva aiutati a fare i bagagli, a caricare i carri, li aveva accompagnati fino ad uscire dalla magione. Poi tornò indietro.
Rientrando dentro la Rocca, incrociò l’Arconte Makarov e chiese “Signore, potrei restare qui per un po’? Prometto che non darò noia a nessuno anzi, se potessi essere in qualche modo necessario io…”
“Fa come cazzo ti pare. Non è terra mia questa. Appena qualcuno ti dice di andartene, però, vattene. Hai altro da fare piuttosto che startene qui a piangere….” Disse Aleksej mentre si voltava di scatto e se ne andava, in apparenza molto volentieri dal quel luogo così doloroso.
Non fu possibile parlare con l’Arconte Yad-Stolock. Alcuni suoi attendenti dissero che aveva già lasciato il posto, anche se era piuttosto sicuro, di sentirne la voce attraverso i condotti di aerazione dei sotterranei. Una voce triste e spesso rotta dai singhiozzi. Ma a tratti anche sputante rabbia a desolazione.
Decise di raggiungere l’unica pianta notabile della costruzione e sedercisi sotto.
Adesso era lì, a fissare il vuoto. Mentre vedeva gli altri in lontananza che se ne andavano a dormire, o tornavano a ciò che chiamavano casa.
Lui semplicemente era assiso sotto quel fico. A guardare l’orizzonte di là da quello.
Un orizzonte che aveva perso probabilmente la persona che più stimava.
Un orizzonte molto più scuro, adesso.