Virtutis Gloria Merces

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– Non andate.
Questo era quello che chiunque aveva detto a Erik Mac Dussel, vedendolo uscire nel cortile interno di Helbronn. E cosa mai avrebbe dovuto fare, ignorare tutti quei rumori che arrivavano anche oltre le imposte chiuse? Avrebbe dovuto chiudersi nella sua stanza con una coperta sulle spalle e una cuffietta ben calcata in testa. Suvvia… Quelle persone parlavano con il Frenhin di Gardan, il Duce dell’Orsa Bianca, mica con l’ultimo dei garzoni!
– Non andate.
I cerusici gli avevano detto così anche a Lencoe, prima di partire, quando aveva espresso la sua volontà di raggiungere il Regio Conclave. Lo sentiva benissimo da solo che le forze lo stavano abbandonando, che il fisico una volta possente stava lentamente avvizzendo. Si stava spegnendo come una fiamma nella tempesta. “Questo viaggio potrebbe esservi fatale”, dicevano i cerusici. Anche Floki gliel’aveva detto, ma col sorriso sulle labbra. Lui sapeva cosa voleva Erik. “Potreste morire stavolta”, lo avevano ammonito. Col senno di poi, avrebbero avuto ragione.
– Non andate.
I suoi stessi cortigiani, quei nuovi giovani che adesso affollavano le sale dell’Orsa, così l’avevano apostrofato quando l’avevano visto apparire sulla soglia, spada in pugno e sguardo fiero diretto verso la battaglia. Avevano paura per lui. “Da quando ti sei ridotto così, Erik Mac Dussel?”, pensò tra sé e sé. Sembrava che chiunque si sentisse all’improvviso obbligato a fargli da balia, come se non se la sapesse cavare da solo.
Ma lui era Erik Mac Dussel. Aveva visto ben di peggio.

* * *

– Non andate.
Erik Mac Dussel sbuffò alzando lo sguardo verso Alan Marlour, che con sguardo severo lo scrutava dalla soglia della tenda. Il Cavaliere gli gettò un’occhiata rabbiosa, carica di sfida, mentre alla luce di un braciere si stringeva le cinghie della corazza.
– E cosa dovrei fare, Alan? Starmene nelle retrovie a urlare ordini? Rimanere con la sussistenza e prepararvi il pranzo?
Alan tacque, ma continuò a fissare il suo interlocutore insistentemente. Erik strinse i denti, stringendo la cinghia del bracciale dell’armatura di scatto.
– Tra poche ore arriveremo sotto le mura di Falcon, capisci, Alan? È la battaglia che i nostri padri hanno sempre aspettato, e i loro padri prima di loro, e così via per chissà quante generazioni. È la battaglia più importante che verrà mai combattuta. E io dovrei perdermela?
Alan si spostò dalla soglia, entrando all’interno. Mentre la luce rossastra della fiamma scintillava sull’usbergo di Erik, le ombre sembravano invece avvolgere la giovane figura del suo compagno d’arme.
– Non andate, mio signore – disse Alan, serio. – La piccola Logan ha solo pochi mesi. Avrà bisogno di un padre come lady Ophelia avrà bisogno di un marito che la aiuti. La nostra terra avrà bisogno di qualcuno che la governi. Non c’è bisogno che voi scendiate in battaglia e rischiate la vostra vita, noi saremo sufficienti…
A Erik scappò un sorriso. Si avvicinò all’amico e gli posò una mano sulla spalla.
– E che esempio darei alla nostra gente? Che Erik Mac Dussel fa combattere ad altri le sue battaglie? Non se ne parla, Alan. Scenderò in battaglia, in prima fila, e l’Orsa Bianca garrirà sulle nere mura di Falcon prima che la sera scenda!

* * *

Aveva conosciuto la paura molte volte, ma quello non era il giorno in cui avrebbe avuto paura. Branchi di esaltati al soldo degli hob erano apparsi dal nulla e minacciavano Helbronn sotto la sferza dei loro malvagi aguzzini. Come onde di marea si abbattevano contro le mura del maniero schiantandosi sugli scudi degli intrepidi difensori, che resistevano saldi come rocce. Acciaio cozzava contro acciaio, lame taglienti fendevano la carne, sangue vermiglio già arrossava il terreno. Quando cade a terra, il sangue dei giusti e quello degli empi non si distingue più. Erik contemplava la battaglia al sicuro, come aveva promesso alla sua famiglia e ai suoi fedeli sudditi; gli bastava sapere che chi combatteva per lui poteva confidare nella mano pietosa di un guaritore per scampare alle grinfie della Tetra Mietitrice e si sentiva già più rasserenato. Eppure, si sentiva il cuore scalpitare in petto come una mandria di cavalli al galoppo, con una forza che da quando era stato liberato dalla sua prigionia non aveva mai sentito. Che cosa vuoi dirmi, cuore mio?

* * *

Aveva conosciuto la paura molte volte, ma mai ne avrebbe avuta come quel giorno. Negare che quella visione gli stringeva le budella come un pugno ghiacciato sarebbe stato stupido; compito di un Cavaliere è però quello di trasformare quella paura in forza, quel terrore in decisione. Come una fila di lame, Falcon si alzava dalla pianura come un’offesa al cielo stesso; tra le sue mura d’ossidiana si stagliavano torri aguzze come zanne e migliaia di difensori si agitavano con le armi già sguainate. Sotto un cielo tempestoso, elfi dalla pelle d’ebano salmodiavano canti sacrileghi mentre incoccavano frecce munite di letali rostri; blasfemi adoratori di demoni in vesti sanguigne convocavano i loro maligni signori alla battaglia, facendoli apparire tra fiamme sulfuree; armigeri in usberghi bronzei incitavano gli avversari alla pugna percuotendo gli scudi decorati con empi simboli. Il pensiero che se avesse mai visto il fondo della Piaga di Orione avrebbe avuto di certo quell’aspetto attanagliava la mente di Erik come un incubo. Eppure, non era il momento di temere. I Cavalieri di Gardan confidavano in lui. Ognuno confidava nell’altro. Dovevano farlo, o sarebbero stati persi.
– Figli dell’Orsa Bianca! – urlò Erik al di sopra della baraonda. – Che l’Orifiamma brilli nei nostri cuori! Oggi noi cambiamo la storia! Che nessuno si fermi finché la battaglia non sarà finita! Per Gardan! Per il Re Fanciullo! Che l’Impero crolli sotto il nostro giusto passo!
Il Duca spronò la sua cavalcatura a voltarsi di nuovo verso le mura, fronteggiandole. Un altro guerriero a cavallo, chiuso in una corazza di cuoio e dalle spalle coperte da una folte pelliccia, gli si affiancò sollevando la celata dell’elmo.
– Non ti si addice questa tenuta, sir Nathan… – ridacchiò Erik, nervoso.
– Non sopporto l’elmo, mio signore, ma credo sia saggio indossarlo oggi… – mugugnò il mezzelfo guardando gli avversari. – Gran parte delle forze hob dell’Impero hanno deciso di ritornare sugli Altipiani prima di questa battaglia, così Falcon ha perso un valido alleato che combattesse in prima linea; i loro arcieri, a questo punto, si faranno però ancora meno problemi a tempestarci di frecce!
Erik annuì, elaborando le informazioni che il suo compagno gli stava dando. Nathan si voltò verso di lui, con un mezzo sorrisetto di sfida.
– Mi dispiace che gli hob se ne siano andati… Avrei tanto voluto mettere alla prova questa loro fantomatica leggenda… Questo Hobgar il Guercio di cui tanto si fanno vanto…

* * *

– HOBGAAAAAAAAR!
L’urlo del Sire della Torre Scarlatta squarciò l’aria come un tuono. Nessuna campana suonata a martello avrebbe potuto superare la possanza di quell’allarme gridato dal fondo dei polmoni. Gli sguardi di tutti si voltarono di scatto a ispezionare la piana oltre il cancello principale di Helbronn, dove fino a poco prima la battaglia imperversava; adesso su di essa si stagliava una figura poderosa, che quasi nessuno aveva visto mai se non nei propri incubi. La pelle verdastra del duro volto era deturpata da decine di profonde cicatrici, mentre una piastra metallica irta di spine e uncini copriva interamente l’occhio destro; le zanne erano strette in un perenne ringhio di rabbia, una sfida contro un intero mondo da conquistare. Stretto in una corazza brunita e in un mantello di pelliccia di chissà quale bestia finita sotto le sue letali mani, Hobgar il Guercio avanzava nella piana seguito dai suoi combattenti scelti e guidandoli con cenni della sua pesante alabarda. Ogni suo passo rimbombava come un martello sul coperchio della bara che aspettava chiunque lo avesse affrontato.
Erik Mac Dussel trattenne il fiato a quello spettacolo orrendo, a quel presagio di morte. Una stilla di sudore freddo gli solcò il collo. Quanti sarebbero caduti per mano di quel carnefice, se avesse deciso di muovere battaglia? Quanti si sarebbero ritrovati a soccombere sotto il filo delle armi del suo battaglione? Ma soprattutto… Lui, il Duca di Gardan, cosa avrebbe fatto? Sentiva la spada così malferma in mano… Se avesse dovuto fare uno scatto, le gambe lo avrebbero retto? Avrebbe trovato abbastanza fiato per impartire gli ordini giusti ai suoi conterranei? Avrebbe avuto la lucidità adatta per elaborare un piano e per mantenere la situazione sotto controllo?
Ce la poteva fare. Ce la doveva fare… Aveva vissuto di peggio…

* * *

– I nostri trabucchi hanno fatto breccia nel cancello presso la decima caserma imperiale, signore! La via è aperta!
Quando un ignoto attendente gli portò quella notizia, uno strano sorriso si aprì sul volto di Erik. L’attesa era finita. Il cuore aveva iniziato a pompare come un cavallo al galoppo, e tutta la paura si stava tramutando in eccitazione, in voglia di giustizia, in sete di gloria. Lui sarebbe stato l’arma con cui i sui avi si sarebbero vendicati di millenni di soprusi e angherie; di lui avrebbe parlato la Storia. Sempre che fossero riusciti nella loro impresa, e senza morire, magari. Il vessillo dell’Orsa Bianca, alto sopra la sua testa, fu abbassato; sotto lo sguardo attonito di decine di cavalieri venuti dalla sua terra, Erik strappò lo stendardo dalla lancia e se lo mise sulle spalle a mo’ di mantello.
– Figli di Gardan! – ululò. – Non posso tenere alto il nostro gonfalone e combattere con la mia spada allo stesso tempo! Seguitemi e l’Orsa Bianca cavalcherà con noi! Ed ora… CARICA!
Un urlo unanime seguì quelle parole, mentre i cavalli scalpitavano iniziando la loro folle corsa. Usciti dalla schiera dei militi appiedati, che iniziarono ad arrancare dietro di loro, i cavalieri gardaniti iniziarono a fendere la piana di Falcon come un lampo d’acciaio. Le corazze metalliche dei prodi combattenti baluginavano sotto i fulmini che illuminavano il cielo tempestoso mentre il frastuono degli zoccoli andava ad unirsi a quello delle altre cavallerie gettate alla carica.
– Scartate ai lati! – tuonò Erik stringendo le redini del cavallo e facendolo balzare a destra. Non tutti i cavalieri furono rapidi come lui, e un paio di cavallo franarono rovinosamente al suolo assieme ai loro cavalieri mentre una selva di frecce si abbatteva su di loro. Non sarebbe stato facile raggiungere la breccia così…
– Non rallentate! – ordinò il Duca imperioso. – Formazione aperta, convergiamo solo a cento piedi dalle mura!
Altri strali caddero come saette impietose, portando via la vita di qualche coraggioso patriota gardanita. Erik provava a non pensare a quanti non avrebbero conosciuto la fine di quel giorno, quanti sarebbero caduti ancora prima di cominciare la vera battaglia… Ma non c’era tempo di pensare: doveva cavalcare più veloce, doveva spronare di più il suo destriero, doveva stare più basso sulla sella… Quando arrivò alla breccia nemmeno si accorse di quanti ancora aveva alle spalle, in quanto i dannati armigeri imperiali si erano disposti a chiudere il varco, picche in pugno puntate innanzi a loro. Era una corsa contro la morte.
Mancavano pochi passi al finire infilzati, se non si fosse fermato. Non si fermò. Impugnò le redini e spinse il cavallo ad aumentare la velocità, e infine lo fece saltare. Presi alla sprovvista, i soldati di Falcon non ce la fecero a rialzare le lance in tempo per fermare il destriero che balzava sopra le loro teste. Erik abbassò la spada in un lampo, giusto in tempo per colpire con la lama in mezzo al volto il capitano dei picchieri prima di atterrare in mezzo alla formazione nemica e di abbattere con un ampio fendente altri tre militi. Presi alla sprovvista da quella audace azione, i lancieri vennero travolti dalla subitanea carica dei restanti cavalieri gardaniti. Smontando da cavallo, Erik infilzò la spada nel ventre di un soldato innanzi a lui, per poi allontanarlo con una pedata; in mezzo alla mischia, conficcò la sua fedele arma a terra per alzare in pugno lo stendardo di Gardan. Era immacolato e splendeva nella tenebra della battaglia. La voce del Duca risuonò sulla breccia.
– Il primo sangue per Gardan è stato versato! Preparatevi, uomini, sarà una lunga notte!

* * *

Resistevano. Le truppe di Hobgar attaccavano incessantemente, ma gli uomini dell’Orifiamma resistevano. Lo sentiva, Erik: quell’antico fuoco si stava rianimando, sentiva la sua vita ardere più forte che mai, come in quei vecchi giorni di battaglia. Gli mancava. Non era fatto per essere un infermo. Era il Duca di Gardan, per la miseria! Lui era l’Orso! Quella fiamma in lui ardeva tanto da avergli fatto buttare via il cappotto che gli copriva le spalle, lasciando libero il suo vero essere: quel tatuaggio, ricordo del giorno in cui era entrato a Falcon con lo stendardo sulle spalle, e lì l’avrebbe portato per sempre. Hobgar voleva la battaglia? L’avrebbe avuta. Loro avrebbero resistito. I padri di Gardan hanno resistito all’Impero per tremila anni; loro non avrebbero potuto reggere l’assalto di un sudicio hob per un giorno? Per quanto c’è di sacro nell’Orifiamma, loro avrebbero resistito!
E poi l’impensabile. In ogni battaglia c’è sempre un occhio del ciclone, un punto di assoluta calma intorno a cui tutto infuria. Quel punto era Hobgar, il padre di quella tempesta, l’ennesima tempesta che Erik avrebbe dovuto affrontare. Eppure, qualcuno aveva osato andare ad affrontare il cuore stesso della tempesta, laddove tutto è quieto ma risiede la più mortale delle insidie. Da dietro l’angolo del cancello, un pugno di sconsiderati aveva lasciato la formazione per uscire dalle retrovie ed andare a sfidare Hobgar stesso. Un giovane ragazzo li guidava, il fuoco della battaglia negli occhi, lo scudo e la mazza saldi in pugno. Sembrava sapere quel che faceva. Lord Friederich von Hassel, il figlio del Duca Kaspar, guidava contro il Tiranno un manipoli di incoscienti. Loro non avevano il suo ardore, osservò subito Erik. Alle prime difficoltà se ne sarebbero andati, lasciando Friederich da solo, a venir trucidato.
Qualcuno urlò il nome del giovane. Molti ordini furono dati, e nessuno sarebbe servito a niente. Ormai non c’era più una battaglia, ma una rissa fra belve che si mordevano, si azzannavano, si assalivano trucemente. Ogni tattica era saltata, uomini e hob erano solo una massa unica di carne e acciaio che si contorceva in un mare di dolore e agonia. Le urla di Friederich laceravano il cuore, a chiunque ancora poteva udirle. Il suo assalto era stato vano, i suoi colpi si erano mostrati inefficaci, ogni tecnica inutile. Prima le sue vestigia erano state infrante, poi le sue carni straziate, infine le sue stesse ossa ridotte in frantumi; giaceva al suolo, nel fango, assieme al suo orgoglio. Hobgar lo aveva sovrastato e dominato, e avrebbe giocato con lui per dare una lezione a tutti prima di ucciderlo.” Per gli Astri”, pensò Erik, “è ancora un ragazzo. Potrebbe essere mio figlio. Potrebbe esserci Logan al suo posto. Non può finire così…”
Ed Erik capì. La sua vita non stava ardendo più forte. Quella fiamma che sentiva non erano che le braci di un antico onore, di un orgoglio mai sopito che andava ormai morendo. Non lo avrebbe permesso. Avrebbe concluso la sua vita a modo suo. Se quel fuoco era destinato a spegnersi, allora sarebbe brillato come una fiaccola nella notte fino in fondo. Non avrebbe atteso l’ultimo passo, ma gli sarebbe andato incontro nello stesso modo in cui era sempre vissuto.
Disse poche parole a qualche cortigiano vicino, qualche ultima frase. Chissà se le avrebbero ricordate un giorno. Che importanza aveva? Adesso c’era la battaglia da affrontare, un nemico innanzi, e la propria vita in pugno per l’ultima volta. L’Artiglio del Frenhin, il suo fedele compagno, simbolo di tutto ciò in cui credeva, lo avrebbe accompagnato in quella sfida.
Come un’ombra, Erik sfilò in mezzo alle schiere, diretto verso il cuore della battaglia. Hobgar era innanzi a lui. Una sfida che molti cavalieri avevano atteso, e che quasi nessuno aveva raccontato. Neanche lui stesso l’avrebbe raccontata, lo sapeva, ma era il suo destino. All’improvviso, una figura si alzò al suo fianco caricandolo con ferocia con due asce sguainate. Un luogotenente di Hobgar, uno dei più efferati carnefici della Tirannia, Kinsalt, il Giudice di Ferro, che per ore aveva messo alla prova le forze di Helbronn; eppure, adesso era solo qualcosa tra Erik Mac Dussel e il suo fato. Un arco della spada parallelo a terra colse Kinsalt in pieno petto, spezzandolo quasi in due e mandandolo ad accasciarsi al suolo come una foglia morta. Era un piccolo inconveniente. Niente di cui il Frenhin di Gardan non si sarebbe potuto sbarazzare in un istante. Non quando in lui si preparava per l’ultima battaglia.

* * *

Forse era la fine. Erano ore che i cavalieri di Gardan vagavano per le strade della capitale dell’Impero, affrontando battaglia su battaglia. Erano meno della metà di quando erano partiti, ed erano esausti. Feriti ed esausti. Là, nel palazzo dei Quattro, Kanzor e la Gloriosa Compagine affrontavano probabilmente il nemico più forte che quelle terre avrebbero mai visto, e tutto per il bene delle genti che anelavano alla libertà. Quindi loro, cavalieri dell’Orsa Bianca, non si sarebbero potuti fermare. Non adesso. Non quando ancora le sorti della guerra erano in bilico.
I cavalieri di Athar e Thersa avevano già raggiunto il bastione nord, dividendosi da loro dopo dei brevi saluti. Tutti i Ducati, terre oppresse e le cui virtù erano quotidianamente soffocate, si erano alzati come un sol uomo e avevano combattuto fianco a fianco, piangendo ognuno per i morti dell’altro e ognuno difendendo il proprio fratello. Piano piano che la battaglia andava avanti, però, i gruppi si erano sfaldati, ognuno seguendo i propri ordini. I cavalieri di Gardan dovevano spingere adesso verso sud ovest, nel cuore della città, per fermare un rituale di cui era stata fatta menzione da alcuni prigionieri. Facile a dirsi, quando le forze erano ormai allo stremo…
Quando il demone apparve, la notte sembrò più buia che mai. Con una fiamma sulfurea la creatura apparve in mezzo ai cavalieri, sparpagliando la formazione; il suo corpo d’ossidiana torreggiava fino al secondo piano degli edifici vicini; i suoi occhi sanguigni scrutavano le future vittime della sua spada frastagliata, mentre fauci robuste schioccavano bramose di sangue. Con un singolo fendente la testa di un cavaliere rotolò a terra assieme a quella della sua cavalcatura, con la facilità con cui si spezza un ramo.
– Da tutti i lati, cavalieri!- ordinò Erik, subodorando la trappola. Una dozzina di necromanti apparvero da varie finestre, iniziando a bersagliare con sortilegi i gardaniti sfiniti. Ci fu caos. Nel buio che sembrava avvolgere la strada venivano scambiati colpi alla cieca e le urla di dolore si alzavano al di sopra del crepitio dei fuochi arcani che venivano scagliati dai perfidi imperiali.
Poteva essere la fine, pensò Erik. Eppure, qualcosa lo guidava. Si accorse che la sua spada riusciva a parare i fendenti del demone, nonostante non li vedesse nemmeno partire. Il dolore era un sottofondo che poteva benissimo ignorare. Ci credeva, in quella vittoria. Era sicuro che avrebbero vinto, perché gli Astri erano dalla loro parte. Perché erano nel giusto. Perché combattevano per migliaia e migliaia di persone, che aspettavano il loro ritorno. Sudditi. Amici. Mogli. Figli. Ophelia. Logan. La spada di Erik tranciò qualcosa, e il demone latrò empie blasfemie, ma solo per pochi attimi; l’Artiglio del Frenhin era infisso nel suo addome, e arrampicandosi sul corpo stesso del demone il Duca lo squarciò sino al petto, facendo cadere l’infame creatura riversa al suolo. Sporco di icore nero dalla testa ai piedi, ma vittorioso, Erik alzò urlando la spada al cielo. Un debole raggio di luce lo raggiunse, quasi ferendogli gli occhi. Era tiepido e piacevole, e sapeva di casa e di vittoria.
L’alba stava sorgendo.

* * *

Siamo io e te adesso, Hobgar. Solo io e te. La luce e l’ombra, il bene e il male, avvinti in quest’ultimo scontro.
Erik caricò un colpo dall’alto, che si abbatté sul manico dell’alabarda di Hobgar tornato prontamente in guardia. Il fendente di risposta dell’hob venne intercettato dal provvidenziale scudo del Duca Kaspar, che fu quasi ridotto in ginocchio da tanta brutale forza.
Rimarremo io e te, alla fine. Lo sai questo, vero? Portiamo a termine una sfida che non ha mai potuto avere luogo.
I colpi di Erik e Hobgar si incrociarono con forza tale che le armi di entrambi vennero scaraventate via. Intorno ai due, uomini e hob continuavano la loro battaglia stringendosi attorno a loro.
Cosa faremo, Hobgar? Per quanto combatteremo? Sento le mie forze venire meno, eppure vorrei affrontarti al meglio delle mie forze. Dubito che avrò un’altra possibilità.
Hobgar scattò verso la sua arma. In pochi istanti ce l’avrebbe fatta, e sarebbe stata una carneficina per tutti quelli a lui vicini. Erik, con un urlo strozzato, balzò in avanti abbrancando il Tiranno per la vita e quasi sollevandolo da terra con la furia di un orso., la furia dell’Orso.
Balla con me, Hobgar. Fai che questa battaglia sia solo mia.
Ringhiando di rabbia, Hobgar afferrò le braccia di Erik ma senza riuscire a liberarsi se non per un istante, il tempo necessario al gardanita per stringergli le mani attorno al collo.
Solo io e te, Hobgar. Potremmo combattere per tutto il giorno, senza che uno dei due vinca.
L’ira del Tiranno era palpabile nell’aria. Molti uomini cercavano di dividerlo dal Duca di Gardan, ma questi rimaneva attaccato testardamente. Con un urlo, Hobgar tirò un pugno dritto al costato di Erik, quasi alzandolo da terra.
Forse non tutto il giorno, Hobgar, ma di sicuro molto a lungo.
Un altro pugno raggiunse il fegato di Erik.
Nemmeno così a lungo, forse. Ma sai cosa ti dico? Va bene così.
Un altro colpo. E un altro. E un altro. Il sangue cadeva a terra come una pioggia scarlatta.
È vero. Quando uno sta per morire ha molto tempo per pensare, come se il tempo si dilatasse. Eppure non voglio pensare a niente.
Le mani di Hobgar si alzarono fino al volto sanguinante di Erik, stringendolo in una morsa letale. Tutti urlavano adesso.
Ophelia, moglie mia. Logan, Erika, Cameron, figli miei. Addio. Cos’altro avrei da dirvi?
Hobgar iniziò a torcere il collo di Erik con forza. Lentamente, le ossa iniziarono a scricchiolare.
Mi mancherete davvero. E questo è l’ultimo dolore di cui mi voglio ricordare.
Le grida disperate. Le mani di Hobgar. Una lenta, inesorabile torsione.
Questo è il tramonto dell’uomo.
La vista si fa appannata. Il dolore è solo un’eco lontana.
Ma non sorgerà una nuova alba.
CRACK.

 

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