Nonostante fosse passata quasi una settimana dall’ultima tempesta, il mare non si era ancora completamente calmato. Mentre i raggi del sole facevano vibrare il verde smeraldino della vegetazione dell’isola, l’acqua sembrava ancora nera, impenetrabile alla luce come una coltre di petrolio, rotta solo in qua e in là da dei fronti d’onda alti oltre tre metri. La nave, la “Saint Delicés”, beccheggiava poderosamente mentre la prua fendeva i marosi con abbondanti spruzzi d’acqua che spazzavano il ponte.
– Com’era la battuta del Golova Volk Aleksej, di preciso? Questa situazione è quanto mai calzante! – disse la giovane ragazza con tono allegro appoggiata alla balaustra, gli occhi scuri fissi ad osservare la lenza che aveva gettato in acqua. L’uomo accanto a lei, aggrappato invece allo stesso corrimano, non sembrava condividere la stessa spensieratezza.
– Credo che vomiterò, Eliot – mugugnò stancamente, mentre il volto virava dal bianco al verde.
– Non essere drammatico, volk Hari… Non sei tu quello che diceva che a Caponord è tutto più grande? È normale che le onde siano così! – gli rispose la giovane, iniziando a recuperare la lenza.
– E pericoloso. Tutto è più grande E pericoloso – sentenziò Hari alzando un dito ammonitore e trattenendo un altro conato. Eliot lo guardò divertita, poi occhieggiò verso la base dell’albero maestro trattenendo una risata.
– Sono altri i pericoli di cui ti devi preoccupare, fidati… – ridacchiò Eliot indicandogli qualcosa con un cenno del mento. Hari si voltò a guardare, poi si fece rosso in volto.
– Viktorya! Stai giocando di nuovo a carte! – ululò sopra il ruggito del mare. La sorella, seduta sul ponte a gambe incrociate, non staccò gli occhi dalle carte che teneva in mano mentre il fratello si avvicinava ad ampie falcate; stesso discorso anche per il suo giovanissimo avversario, che teneva la sua mano ad un palmo dal naso come a volerla studiare con dovizia.
– Non ti preoccupare, Hari, non stiamo giocando con molti soldi – lo rassicurò Viktorya con un cenno della mano, – e poi Yagosh sta imparando adesso quindi non credo che perderò troppo…
Hari guardò con disapprovazione la sorella, per aggrapparsi solo dopo pochi istanti al sartiame alla base dell’albero quando la nave ondeggiò pericolosamente. Viktorya e Yagosh bloccarono le carte con mani e piedi prima che andassero al giro per il ponte, quindi si rimisero a giocare subito.
– Yagosh – sospirò Hari guardando la mano del giovane, – non mi pare che nei Fati ci siano donne nude, o almeno non in quel modo. Credo che quello sia un disegno di uno dei marinai, non una carta.
– Oh.
– Già.
– Credevo fosse forte – mugolò Yagosh, gli occhioni azzurri spalancati, – e sarebbe stata la mia prossima giocata. Uffa… – concluse con un lungo sbuffo, infilandosi il disegno nella tasca e giocando un’altra delle sue carte.
– Un punto per Vivi! – urlò la ragazza calando seccamente uno dei suoi Fati sul ponte. Mentre i due giocatori iniziavano un rumoroso battibecco, Hari ritornò verso la balaustra reggendosi in precario equilibrio; assieme a Eliot, adesso, stava un uomo alto e con una folta barba scura, intento a lisciarsela con fare pensieroso.
– Stragof, se ci sei anche tu vuol dire che il gruppo degli apprendisti zeloti degli Indagatori è al gran completo… – sorrise Hari, ancorandosi di nuovo al corrimano. Il suo interlocutore non sembrava invece turbato dai moti ondosi, ma si limitava a guardare impassibile verso l’orizzonte.
– Non credo che quest’isola mi mancherà troppo – osservò pensosamente. Al suo fianco Eliot annuì con forza, tirando sul ponte un grosso cefalo argentato. Hari fece una mezza smorfia divertita, annuendo a sua volta, per poi voltare anche lui lo sguardo verso l’isola. La sua vita era stata relativamente tranquilla, fino a pochi giorni fa; come tutti aveva la sua storia da raccontare, ma non avrebbe mai definito il suo passato come avventuroso. Adesso… Chiuse gli occhi, beandosi del buio al di là delle palpebre, tranquillo, immoto. Adesso sentiva che qualcosa si era messo in moto, come una biglia spinta giù per una discesa. Sentiva che la velocità sarebbe aumentata e che sarebbe stato impossibile provare a fermarsi. In quattro giorni gli era toccato un mezzo naufragio, era stato ferito a morte in più di un’occasione, aveva conosciuto nuove persone di ogni provenienza e lignaggio, era divenuto apprendista Indagatore dei Culti Apocrifi come sempre aveva sperato, aveva visto creature orribili e impensabili, aveva scoperto tracce di antichi misteri… Non sapeva se tutto quello fosse stato troppo per lui, ma ormai era lì ed era anche abbastanza incuriosito. Sarebbe stato all’altezza di tutto questo? Hari riaprì gli occhi di scatto. Alla luce del sole, l’isola dava il suo saluto luccicando come una gemma.
– Ma poi, questa era Ultramar o no? – sussurrò tra sé e sé, divertito.
* * *
– Cinque miglia di corsa. Scattare.
Hari sorrise debolmente con espressione vacua. Forse non aveva capito bene, quindi incrociò le mani dietro la schiena con una mezza risata nervosa, ma la donna davanti a lui lo squadrò da capo a piedi seria come un necrologio.
– Sei miglia. Scattare su-bi-to. Un altro tentennamento e diventano dieci.
Mentre scattava come una molla, Hari si chiese come potesse essere finito in questa situazione. Presso la sedicente, ennesima Ultramar aveva avuto l’onore e il privilegio di essere accettato come apprendista tra gli Indagatori dei Culti Apocrifi per tre mesi e la cosa gli era sembrata una benedizione. Non era quello che da lungo tempo sognava? Non era un passo più vicino a quella lontana meta che si era prefissato? Al ritorno dall’Isola aveva avuto precise indicazioni di prendere un altro vascello diretto verso Cœur de l’Eau, la città portuale di Valdemar, dove il suo apprendistato avrebbe avuto inizio. Gli era dispiaciuto non poco lasciare Viktorya e Eliot, ma dopotutto si trattava di una sola luna… Presso il porto della città era stato riscontrato da un giovane garzone che gli aveva detto che la mattina successiva si sarebbe dovuto far trovare sulla spiaggia orientale per riscontrare la sua mentore, tale Dame Myléne Blanchfort; a testimoniare la veridicità della comunicazione, il garzone recava con sé una missiva sigillata con esattamente lo stesso messaggio. Hari aveva dormito in locanda quella notte, dormendo pochissimo per l’eccitazione verso il suo nuovo iter, e la mattina successiva si era fatto trovare al limitare della bianca spiaggia che ancora il sole aveva appena fatto capolino all’orizzonte. Quando la mentore arrivò ormai il sole aveva iniziato il suo cammino in cielo da un pezzo: la donna, una pertica alta e dinoccolata con lunghi capelli castani arruffati, non si premurò nemmeno di coprirsi la bocca mentre uno sbadiglio rischiava di slogarle la mascella. Gli abiti violacei che indossava sotto la corazza di cuoio scuro erano lisi e rabberciati.
– Volk Hari Von Khratos? – chiese con tono secco, allungando una mano. Il giovane nobile gliela strinse con foga, anche troppa, visto come la donna si ritrasse con espressione vagamente disgustata mentre si presentava a sua volta.
– Io sono la svetlost Dame Myléne Blanchfort – affermò la donna distrattamente mostrando i tre rosari di pietre, i ruka simbolo del suo rango, legati al polso. – Mi sei stato affidato per la prossima luna e vedrò se si può tirare fuori qualcosa di buono anche da un… un… coso come te.
Hari incassò il colpo senza darlo a vedere, poi arrivò quella frase.
– Cinque miglia di corsa. Scattare.
E mentre era lì che correva arrancando sulla sabbia, il sole che gli feriva gli occhi, Hari si chiese cosa diamine sarebbe stato il suo addestramento.
* * *
Nella prima settimana Hari fece tutto quello che Dame Myléne gli diceva. Corse, spaccò legna sufficiente per tre inverni, cucinò, riordinò la libreria della sua mentore, spolverò la sua casa, la riportò nel suo letto quando dopo una serata di bagordi la svetlost non riusciva più a tenersi in piedi. A testa bassa ingoiò una gran quantità di offese gratuite a lui e alla sua terra di origine, alla sua famiglia e ai suoi amici, quando a un tratto, la mattina dell’ottavo giorno, sbottò. Si trovava in casa della svetlost, una baracca in legno e paglia nei pressi delle banchine del porto, e stava pulendo il pavimento fangoso con un vecchio straccio.
– Hari, ti prego, fai più piano quando sposti le sedie che mi sento la testa scoppiare – lo apostrofò con voce impastata Dame Myléne dal suo giaciglio, su cui giaceva con una pezza bagnata sugli occhi. – Speravo che voi contadinotti foste bravi almeno nei lavori di fatica…
Hari si fermò e si ricordò. Era un nobile, diavolo. Non che usasse la sua carica, ma aveva il suo orgoglio. In silenzio si avvicinò al giaciglio della mentore e si abbassò a parlarle nell’orecchio.
– SUBITO, SIGNORA! – le urlò dal fondo dei polmoni, facendola sobbalzare. La donna trasalì scattando con un singulto a sedere sul letto. Mentre la pezza umida le cadeva in grembo eruppe in una grossa risata.
– Otto giorni, volk Hari! – disse continuando a ridere. – Siete un campione di pazienza per avermi sopportato per otto giorni! Mi stavo iniziando a odiare da sola!
Hari si mise a sedere su una sedia incrociando le braccia al petto, lo sguardo accigliato.
– Era una prova per vedere se foste riuscita a spezzarmi? – chiese con serietà. La donna si asciugò le lacrime tra le ultime risate, rispondendogli.
– Non mi importa niente di spezzarvi, volk. Se le gospodin vi hanno mandato qui avranno già fatto le loro valutazioni. Il mio è un addestramento. La prima lezione è: preparatevi a fare un sacco di cose che non vorreste fare. Se pensate che il compito di un indagatore sia pulito ed elegante siete proprio fuori strada. Ho visto tanti pensare che sia un lavoro di puro concetto, un discorso di testa e basta. Balle. Specialmente se, come ho capito, volete diventare uno zelota, avrete da sporcarvi le mani in più di un occasione. Non troverete mai un tappeto rosso steso per voi, non avrete mai gli indizi che cercherete comodamente disposti innanzi a voi, chi vi dovrà ascoltare non sarà mai tranquillamente assiso in vostra attesa. Una volta, per rafforzare i dogmi di Xoac in una piccola comunità erigasiana che li stava interpretando alla sua maniera, ho avuto bisogno di usare sei cavalli, un machete e diversi metri di corda. Un giorno vi racconterò come è andata. Il punto è che vi dovrete abituare a fare cose che non vi piacciono per portare a termine il vostro obbiettivo. L’importante è che vi piaccia quello, nient’altro.
Hari ascoltò senza dire niente. Alzò un dito, in fondo al discorso della mentore, per porre la sua domanda.
– È solo per questo che ho dovuto fare tutto ciò? Rassettare, pulire, correre…
Dama Myléne ridacchiò, mentre si alzava in piedi.
– All’incirca. Tranne il correre, ovvio. Quello credevo che vi avrebbe fatto bene per la forma.
* * *
Mancavano pochi giorni al termine della prima luna di addestramento quando arrivarono strane notizie da Khartas e la chiamata alle armi della Zarina Zoya. Hari sapeva che Viktorya ed Eliot ci sarebbero state di sicuro, quindi non poteva esimersi dall’essere presente. Dame Myléne prese sul ridere la richiesta di partenza anticipata.
– Non sarà qualche giorno in meno a rendervi un pessimo Indagatore, volk Hari, ma d’altronde non sarà nemmeno qualche giorno in più a rendervi un Indagatore valido… – lo schernì la svetlost valdemarita come suo solito. Il giovane si trovò a pensare che ogni immagine ideale che si era fatto sugli Indagatori dei Culti Apocrifi in quella luna era stata spezzata e bruciata… ed era molto meglio così. Il suo addestramento sarebbe stato duro e ci sarebbero state aspettative su un suo eventuale operato futuro, ma quello che aveva capito era soprattutto che andava fatto quello che andava fatto. Sguardo fisso sull’obbiettivo e correre, senza troppe chiacchiere e distrazioni.
– Grazie di tutto, svetlost – Hari salutò Dame Myléne la mattina della sua partenza dalla banchina del porto mentre si imbarcava.
– Niente di cui ringraziarmi – ghignò la donna dandogli una pacca sulla spalla. – Non sai in che casino ti sei messo da solo.
Hari ghignò a sua volta, rivolgendo alla sua mentore un secco cenno della testa. Forse lo sapeva, in che casino si era messo, e adesso gli sembrava un po’ più vero esserci. Con passo fermo salì sulla scaletta, diretto verso chissà quale nuova avventura.