Era, se non ricordo male, un giorno in cui l’inverno ancora non aveva iniziato a mordere le chiappe ai viandanti che si attardavano sulle strade, però già l’aria fredda ti faceva affrettare notevolmente il passo senza che tu te ne accorgessi…
Correva l’anno XXX del Regno Eterno, o giù di lì, e io mi trovavo per caso a passare da Scenziar, abbastanza infreddolito da desiderare di chiedere ospitalità ai miei due vecchi amici, Noctulis e Loupelee, nel loro distintissimo bordello. Anche se avessi voluto, non mi sarei potuto permettere di pagare nemmeno una cenetta da sguattero presso il loro esosissimo locale, ma i proprietari consideravano un investimento offrirmi comodità e solidi boccali pieni di liquidi speziati e altamente alcolici purché io mi esibissi in concerto per i loro avventori, cosa che accettavo di fare sempre di buon grado.
“Oh, meno male che sei tu, Lypsak! Sei la persona giusta al momento giusto…”
Anche Loupelee mi rivolse uno dei sorrisi più smaglianti di cui era capace, e levò un inequivocabile sospiro di sollievo.
“Sia ringraziata Ellesham! Ecco chi si prenderà la briga di sollevarci da questa valle di lacrime… in cambio di un pasto luculliano e tutta l’ospitalità di cui siamo capaci, s’intende…”
Mi costrinsi a guardare negli occhi la procacissima locandiera e risposi: “Ma, Madame, se si tratta di suonare lo sai che non mi tiro mai indietro… ma se avete la cantina invasa da erba piangina, io davvero non me ne intendo…”
“Ma stai zitto, rincoglionito di un bardo! Guarda laggiù e capirai da solo…”
Su un lato del lungo bancone, avvolto da un leggero alone di fumo, sedeva un uomo robusto e di statura piuttosto considerevole, con i gomiti puntellati al ripiano e le mani che reggevano il testone ricciuto. Vestiva di bianco e nero, e i suoi abiti erano macchiati nel peggiore dei modi da sostanze identificabili in linea di massima come sangue rappreso, terra, erba, icori verdastri e quant’altro.
La sua espressione era assente: non sembrava interessarsi né al boccale dinanzi a sé (accompagnato da una montagnola di altri boccali, lasciati con noncuranza a vegetare in un angolo del ripiano, ormai svuotati del loro prezioso contenuto), né alle frecce spezzate che ancora costellavano la sua armatura, né agli avventori che lo osservavano timorosi, terrorizzati dall’idea di alzare la voce e disturbare quel colosso. Molti di loro lo conoscevano, ed erano indecisi se andarsene o meno.
Anche io avevo capito benissimo che cosa preoccupava Madame e consorte: quel bestione, il cui nome era Gawain, aveva la serata triste. Aveva sicuramente bevuto più di un barile di birra, ma non aveva la solita verve spaccatutto di quando era di buon umore. Certo, sì, demoliva sempre un pezzo di anticamera, ma per lo meno era considerabile un allegro compagno di bevute e trascinava gli avventori venivano trascinati dalla sua verve alcolica.
Così compresi immediatamente ciò che ci si aspettava da me.
Mi avvicinai a lui con il fare più tranquillo possibile, avendo cura di farmi dare da Noctulis due bei boccali di fortissima birra nanica “corretta” alla maniera del Galletto Sbronzo (non mi chiedete cosa ci fosse dentro: non ne ho idea, e il mio fegato non sarebbe felice di saperlo) e di tenerlo bene in vista di fronte a me. Senza dire niente, mi sedetti accanto a lui e glielo piazzai sotto il naso con nonchalance, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Lui si scosse lentamente e mi guardò. Invece di ringhiare, come era solito fare se qualcuno lo disturbava mentre beveva, sbuffò, afferrò il boccale che gli porgevo e trangugiò metà del suo contenuto (roba che avrebbe steso un troll di palude, credetemi).
Dopo qualche minuto, mentre io sorseggiavo la mia birra con cautela (in questo, a Gawain non allacciavo nemmeno i calzari), lui mi rivolse la parola.
“Sei qui, eh?”
“Come vedi, eh sì.”
Altro silenzio.
“Sì sei qui.”
“Certo che ci sono.”
“Dammi la tua birra.”
“Serviti.”
Gli passai anche il mio boccale. Loupelee, che non stava perdendo una virgola delle nostre mosse, ne fece comparire un altro quasi dal nulla sul bancone, e io mi attaccai a quello. Gawain fece fuori un’altra buona metà del suo e poi, inaspettatamente, soggiunse:
“Come stanno i tuoi figli?”
Ora: conoscevo Gawain da più di 10 anni. Fra tutte le domande possibili e immaginabili che potevo aspettarmi, questa proprio mi arrivò fra capo e collo. Gawain! L’indistruttibile Angelo Nero, colui che aveva sterminato più elfi scuri in un mese di quanti tutta la Gloriosa Compagine in un anno (ci si dedicava minuziosamente, era uno specialista del campo), l’uomo che rifuggiva la tenerezza di qualsiasi creatura vivente come fosse peste, e che solo in casi rarissimi aveva mostrato un minimo di burbero affetto… quell’uomo, che mi aveva risparmiato la vita a suo tempo per non so quale arcano motivo, adesso mi chiedeva dei miei due figli.
C’era una storia che stava per sfuggirgli dalle labbra. Era in agguato, lo sentivo: sono bardo da troppo tempo per non accorgermi di queste cose. Dovevo solo lasciarlo sfogare, dopo avergli dato la giusta battuta d’ingresso…
“Sono bellissimi, Gawain. Dovresti vederli. Sono due fiori.”
Gawain rimase in silenzio. Incalzai.
“Fra dieci giorni compiranno due anni.”
Ancora silenzio. Ma un angolo della bocca gli tremava.
“Non so ancora che cosa regalare loro… tu che ne pensi?”
Pensavo che mi avrebbe risposto male o che avrebbe reagito in maniera inconsulta, invece sembrò pensarci un po’ su, fissando il fondo del boccale vuoto. Gli passai il mio con delicatezza, e lui ne svuotò un po’ meno di metà. Un altro boccale era già comparso dinanzi a me.
“Alla mia Keyl volevo regalare una palla di pezza e un cavallo a molla.”
Ah-ha! Un nome! Finalmente… No, no, ora non dovevo fargli perdere il filo dei suoi ricordi.
“Beh, è un’idea. Non ci avevo pensato.”
Gawain annuì, non sapevo se a se se stesso o a me.
“Le mie bambine si divertivano tantissimo. Facevo di tutto per poter portare loro ogni volta qualcosa di nuovo dal mercato, quando ci andavo a vendere i sacchi di grano. Ma non è che mi riusciva sempre. Però a loro bastava che tornassi a casa. E poi mangiavamo insieme la focaccia con l’uva passa che preparava Ania con Meyl e Reyl. Le pasticciavano tutta la cucina, ma erano così contente di aiutarla…”
Cosa cosa cosa? Ania, Meyl, Reyl? E queste? Ben quattro personaggi di sesso femminile?
“Focaccia con l’uva passa? Chissà che buona…”
“Sì, e poi Ania tirava sempre fuori un fiasco di vino, ma di quello cattivo, però, perché non è che come contadino potessi metter tanti soldi in tasca… però lei ci metteva dentro il miele e non so cos’altro, non me lo voleva mai dire, e mi accoglieva sulla soglia dopo averne assaggiato un po’… aveva le labbra dolci dolci, avrei continuato a baciarla per ore…”
Non dissi niente. Sostituii semplicemente il boccale vuoto di Gawain con uno pieno. Subito un ennesimo boccale comparve davanti a me. Non ci fu bisogno di incalzare il flusso dei suoi ricordi. Scorrevano fuori confusi, certo, però copiosi.
“Le bambine ci correvano intorno… cantavano, erano tanto contente di riavermi a casa, e dopo che nacque Keyl, le sue sorelle più grandi a turno la prendevano in braccio e mi saltellavano intorno… Ania era così bella… bella… bella… e io… io non potevo vivere senza di lei…”
Rimasi in silenzio, cercando di digerire tutto quello che mi era stato detto. Dunque Gawain, prima di abbracciare la sua vita da angelo nero, era stato felice. Tanto felice che, una volta che aveva perso tutto, poiché non c’era altra spiegazione alla sua scelta, non aveva potuto far altro che imboccare la via dell’eterna lotta, dell’eterna disillusione, dell’eterno abbraccio della Morte e del Caos.
Gawain era stato un semplice contadino: aveva avuto una donna, l’aveva amata tanto e lei le aveva dato ben tre figliolette, e anche loro erano state amate come solo un padre come il vecchio Gawain, quello di cui nessuno sapeva niente, aveva potuto fare.
Avrei davvero voluto saperne di più. No, davvero. Ma per quella sera mi sembrava abbastanza.
Il mio amico si era appena fissato su un fondaccio del suo boccale. Gli passai il mio e poi, con dolcezza, visto che se ne stava zitto, mi alzai e gli appoggiai la mano su un braccio.
“Dai, vieni, Gawain. Fuori non c’è tutto questo fumo. E si vedono anche le stelle. E poi qui la birra è finita. Andiamo da un’altra parte.”
“Quella donna tiene troppa poca birra in cantina.”
“Verissimo. Ma ha detto che al Tempio di ellesham ne hanno a iosa.”
Era una bugia grossa come la Torre di Giada, ma Gawain mi seguì, docile e pensieroso. Ma credo, e sono pronto a giurare, che non stesse pensando alla birra che si sarebbe ingurgitato di lì a poco.