– Una foresta? Una foresta. Una cazzo di foresta! E non c’è nessuno qui! E la porta? Dove cazzo è finita la porta? MAMMAAAAAAA!!! LA PORTAAAAAA!!!
Entra Aleksej, gli aveva detto, sarà interessante, gli aveva detto, sarà un’esperienza che non hai mai fatto, gli aveva detto. E invece era in una cazzo di foresta, come ce n’erano per miglia e miglia e miglia e – oh guarda! – altre miglia ancora in tutta Khartas! Niente bestie strane, niente taran schiumanti rabbia, niente di niente, solo abeti carichi di neve a perdita d’occhio e nessun fottuto essere umano nel raggio di migl…
– Ehi Aleksej! Come mai sei qui?
Si voltò di scatto: alle sue spalle c’era Eliot, a piedi nudi e in maniche di camicia in mezzo a un cumulo di neve, che lo guardava con espressione sinceramente sorpresa.
– Ma non hai fr… ah già. – Nelle gelide sale di Shiva il freddo e il caldo erano davvero solo stati mentali. – Non ho capito. Cioè, non lo so. Quella stordita di mia madre mi fatto vedere una porta strana, mi ha convinto a entrare non so come e non mi ha detto un cazzo, come al solito… dimmelo tu: che ci faccio qui?
L’esasperazione crescente dipinta sul volto del grande guerriero convinse Eliot che una dimostrazione pratica fosse la via migliore per evitare una fila di imprecazioni e atti inconsulti parzialmente blasfemi. Così, gli prese delicatamente una mano e la appoggiò sull’albero più vicino. Improvvisamente la mente di Aleksej venne invasa da una rabbia inestinguibile, il ricordo netto di una casa in fiamme e di un piccolo corpo avvolto in un drappo sudicio, l’ansia della caccia, la pace del silenzio. L’aveva immaginato? Era stato solo nella sua testa? Di certo non gli apparteneva.
– Ma questo è…
– È uno dei voti di vendetta che ho concesso e che ha trovato la sua chiusura… – spiegò Eliot. – Qui ciascun albero racchiude una delle memorie custodite dai profeti del Collegio del Rancore e questi abeti vicino a noi ospitano quelle che ho portato io con me… ma ce ne sono a migliaia, vedi? Fin dagli albori di Khartas… è praticamente un immenso archivio.
– Un archiv… ma che cazz… maledetta, mi ha incastrato! Questa non è una foresta… è una fottuta esperienza culturale – mugugnò Aleksej incrociando le braccia, profondamente contrariato. – Eccerto, Khartas, abeti, inverno… che idea del cazzo per un archivio!
– Ehm… questo credo che sia colpa mia – intervenne Eliot con tono incerto – perché vedi, la Divina Shiva conservava già qui queste memorie, ma quando sono arrivata mi ha chiesto se non mi avrebbe fatto piacere darle una mano a tenere tutto in ordine e io le ho detto che era un incredibile onore e lei ha risposto che ero la persona giusta e io ma se lo dite voi e allora lei…
– AAAAAHHH falla cortaaaaa!!! – Il grande guerriero era spazientito ma anche curioso come una scimmia.
– Ehm… insomma la Divina Shiva ha detto che le piaceva… il tessuto dei miei sogni. – Lui alzò gli occhi al cielo e lei si strinse nelle spalle, imbarazzata. – O forse ha detto pensieri. Non lo so, va bene? Ero molto emozionata, oh!
– Sì sì, concludi.
– Ehm, ecco… praticamente questa sala si è organizzata intorno alla forma mentis a me più congeniale.
– La COSA?
– È come mi torna comodo vedere le cose – tagliò corto Eliot, mentre il grande combattente si dilungava in un aaaaaaaaaaaaahhhh di tardiva comprensione. – Quindi mi sono trovata qui e…
– E sei rimasta chiusa in questo posto perché la CAZZODIPORTA è sparita! HA! LO SAPEVO!
– No, figurati. Posso uscire quando voglio.
– CHECCAZZODICI?
Eliot si mise a ridere, prendendolo a braccetto, mentre l’esasperazione del suo ospite cresceva a dismisura.
– Dai, vieni con me… ormai che sei qui, ti faccio fare un giro.
***
Il sentiero innevato scivolava sotto i loro piedi rapido come un torrente, serpeggiando fra le fronde, facendo tintinnare appena le sottili gemme di ghiaccio che adornavano gli aghi degli abeti. In breve, oltre l’inverno khartasiano silenzioso e perfetto, grave e maestoso come le memorie che custodiva, cominciarono a intravedere delle chiazze colorate, lo scintillio dell’acqua, l’azzurro prepotente del cielo primaverile.
Quando ebbero superato l’ultima cortina di neri abeti, il sentiero si frammentò in decine e decine di vialetti che si intrecciavano e si accavallavano in un delirio di ponticelli, terrazzamenti e viottoli di ogni forma, materiale e colore. Un vasto avvallamento erboso ospitava centinaia di polle di acqua limpida che si scioglievano dolcemente l’una nell’altra; su di esse si specchiavano pioppi tremuli, ciliegi in fiore, salici sinuosi, forsizie dorate e pigri palmizi, questi ultimi concentrati in corrispondenza di una sottile striscia di spiaggia costellata di conchiglie variopinte, distesa dinanzi a un mare di un turchese irreale, appena increspato da pennacchi di schiuma di madreperla. In mezzo alla vegetazione centinaia di uccelli di ogni specie gridavano e si rincorrevano di ramo in ramo, riempiendo l’aria di canti melodiosi e di schiamazzi assordanti.
Se Valdemar e Erigas potessero scopare e avere una prole, questo sarebbe il risultato, pensò Aleksej.
– Praticamente – spiegò Eliot indicando i vari elementi del paesaggio – qui è come se Valdemar e Erigas si fossero accoppiati e…
– Cazzo, mi legge nel pensiero! – pensò Aleksej, allarmato. Anzi no, l’aveva detto a voce alta, altroché. Urlato, proprio. Eliot rimase a bocca aperta e con l’indice puntato verso un campo di enormi cocomeri, ma decise diplomaticamente di ignorare il commento del suo ospite e dirigere altrove il discorso.
– Qui invece sono conservate le memorie della Ventura, sia dei quattro anni che abbiamo passato insieme che delle vite passate di ciascuno di noi… sono tutte concatenate e intrecciate fra loro, quindi è un po’ complicato averci a che fare e alcune…
Un enorme gabbiano scese in picchiata fischiando come una teiera proprio sulle loro teste: si abbassarono appena in tempo per evitarlo, finendo a mollo in una delle polle. Aleksej si trovò nel bel mezzo di uno scontro a cui non aveva mai partecipato in un luogo in cui non era mai stato, appesantito da uno scudo troppo grande, un frusciar di fiocchetti e un morbido balcone intrappolato nell’acciaio, finché Eliot non lo trascinò fuori dall’acqua, riportandolo con i piedi sull’erba fresca.
– Quando esco di qui vado dritto da Valérie e la cazzio… ma l’hai visto come teneva la guardia?
– Guarda che questo è successo molto prima che si addestrasse con te…
– NON IMPORTA! Glieli spezzo, quei braccini flosci, se solo… – Un ulteriore strattone di Eliot lo distolse dai suoi propositi minacciosi, mentre una canizza di pappagalli variopinti sfrecciava accanto ai suoi gioielli di famiglia. Con un ulteriore balzo Aleksej si rintanò dietro alla sua guida, afferrandola per le spalle e scuotendola energicamente. – E quei gallinacci indemoniati cosa cazzo sono?
– Le memorie della ciurmAHIA! PIANTALA!
– Fanno tutto questo casino anche i loro ricordi? Mmmh… ora capisco perché mamma li ha spediti a giocare ai fantasmi… Meno male che non sono tutti così fastidiosi!
– Come qualcun altro di mia conoscenza…
– Hai detto qualcosa?
– Ho detto che non si potrebbe vivere senza – rispose prontamente Eliot con un sorriso a ottantasei denti. – A parte il chiasso è un bel posto, no? Il mare porta ogni giorno nuovi ricordi… non so come funzioni esattamente, ma credo che la Divina Shiva stia ancora scremando le memorie che desidera custodire e queste poi si intrecciano in… NO, NON TOCCARLO!
Troppo tardi: Aleksej si era avvicinato a un pavone altezzoso quanto un cenacolo valdemarita e questo gli aveva sbattuto in faccia una ruota sfacciata quanto una locanda erigassiana.
– INCREDIBILE – ululò il grande guerriero sputacchiando piume – io pensavo di essere un vizioso, ma QUESTO… ma che cos’ha in mano? WOOOOOOOOOOOO! Ma quanti sono? Ma cosa… CAZZO! – e così gridando assestò una sonora pedata al pavone, che rotolò poco elegantemente in un laghetto in un’esplosione di loto e ninfee. Al suo fianco, Eliot sospirò, scuotendo la testa. – Eh lo so, è roba un po’ forte…
Forte? FORTE? Forte era un colossale eufemismo. Inizialmente, Aleksej aveva trovato la visione che si era formata nella sua testa piuttosto appassionante, istruttiva quasi. Poi si era reso conto di due cose: la prima era che sua madre aveva ritenuto talmente rilevanti le avventure erotiche di Jean Claude e dei suoi numerosi compagni di letto da volerle conservare con minuziosa dovizia di particolari, e questo pensiero sarebbe bastato da solo ad azzerare qualunque entusiasmo. La seconda era che tra i fruitori delle abbondanti doti dell’aitante valdemarita aveva intravisto anche la sua attuale accompagnatrice e per qualche motivo l’idea di sbirciare oltre nella sua intimità lo disturbava moltissimo.
– Ora tu affoghi nell’oceano quel gallinaccio e noi non ne parleremo maaaaai più, d’accordo?
– Maaaaai più, d’accordo.
– Bene.
– Ma non posso sopprimerlo, o tua madre…
– MAAAAAAI PIÙ.
***
Aleksej aveva trascorso ancora un po’ di tempo in quello scorcio di eterna primavera a rincorrere ricordi di battaglie, bagordi e epiche scazzottate; quando si era stancato, Eliot lo aveva preso nuovamente sottobraccio e lo aveva guidato su un nuovo sentiero, una viuzza di polvere e terra battuta che scorreva veloce sotto i loro piedi come fosse stata ricoperta di burro. In breve si trovarono in un’ampia distesa di sabbia e rocce di ogni forma e colore, punteggiata qua e là da una macchia di arbusti resistenti e carichi di piccoli frutti scuri: Aleksej non si intendeva di piante, ma era certo di non aver mai visto nulla del genere in tutta Caponord. Il cielo sembrava vastissimo, velato da giganteschi cumuli di nubi lattiginose, appena tinte dal sole pronto a scendere all’orizzonte. Tutto sembrava immobile, eppure brulicante di vita calda e invisibile.
Che posto era quello?
– Qui – spiegò Eliot a bassa voce – sono custoditi mille anni di memorie degli abitanti della piccola Caponord nelle Lande Selvagge… i ricordi di casa mia, insomma – concluse con tono quasi di scusa.
Questa volta il grande guerriero si trovò senza nulla da dire. Non aveva bisogno di sperimentare nessuna visione per riuscire a percepire quante difficoltà erano state affrontate, quanta forza era stata necessaria per sopravvivere, quante decisioni dolorose erano state prese, quanto calore aveva tenuto unita quella minuscola comunità per così tanto tempo. Per comprendere fino a fondo gli sarebbe bastato sfiorare ogni granello di sabbia, ma sapeva che non l’avrebbe fatto. In realtà, preferiva di gran lunga che gli venisse raccontato. Tanto, il tempo non gli mancava.
Camminarono in silenzio, fianco a fianco, finché qualcosa non attirò l’attenzione di Aleksej. Inspiegabilmente si avvicinò a un frammento di ossidiana che somigliava a un piccolo obelisco, simile a molti altri che avevano incrociato lungo il sentiero, e lo toccò. Il silenzio, poi un terrore improvviso, le urla dei compagni, il suo corpo che si muoveva davanti al grande verme, il dolore di un arto che gli veniva strappato, ombre che si allontanavano e le lacrime, le sue, perché non sarebbe più tornato, non l’avrebbe mai più rivista. Poi più nulla.
Accanto a lui, Eliot guardava senza vederlo un punto vicino ai suoi piedi, immobile. Aleksej non disse niente, la prese per una manica e ricominciarono a camminare fianco a fianco in silenzio, mentre le ombre si allungavano sotto i loro passi.
***
Poco a poco il sentiero si fece più soffice e iniziò a inclinarsi leggermente verso l’alto. Intorno a loro gli arbusti erano diventati sempre più numerosi, fino a diventare una vera e propria macchia piena di ligustri fioriti, rosmarini odorosi e ficaie cariche di frutti. Man mano che la pianura s’increspava, la natura si faceva più rigogliosa, le rocce lasciavano il posto a linee più morbide e l’aria diventava più calda e ricca di profumi misteriosi. Anche se…
– Ho già sentito quest’odore – dichiarò Aleksej – Sembra impossibile, ma ero nella mia cella a Zari-Dome e…
– L’hai sentito? DAVVERO? – Eliot spalancò gli occhi e la bocca, raggiante fino alla punta dei capelli.
Aleksej fece per replicare qualcosa e chiedere qualcos’altro, ma si accorse che in realtà non ce n’era affatto bisogno. Era come se sapesse già quel che doveva sapere. Come se…
– Che cos’è questo posto? – domandò invece. Si trovavano sul fianco di una collina ed erano quasi giunti sulla sua sommità. Una corona di filari di viti grondanti grappoli maturi abbracciava la fine del sentiero e tutta l’altura. La sera accarezzava con i suoi colori le sottili strisce di nubi pigramente addormentate all’orizzonte. Eppure c’era ancora luce in abbondanza e, quando giunsero al termine del viottolo, la destinazione apparve in tutto il suo splendore.
Era il prato più incredibile che Aleksej avesse mai visto e, anche se di solito non notava queste cose, non riusciva a smettere di guardarlo. Un tappeto intessuto di erba profumata e fiori d’estate dai colori cangianti, splendidi e modesti, reali o sognati, mossi appena da una brezza invisibile. Respiravano con un unico respiro, in perfetta sintonia fra loro, esalando un profumo che non poteva esistere se non lì, in quel luogo immaginato, al di là dello spazio e del tempo. Se nelle sale di Shiva c’era la pace silenziosa dei ghiacci, lì si poteva intuire il riflesso del concetto stesso di equilibrio, di armonia, di quiete assoluta.
– Non lo riconosci? – mormorò Eliot con dolcezza. – Eppure sei tu che me l’hai restituito… ed è ciò che io ho lasciato a te quel giorno a Zar-Hyra…
Ecco, ecco perché gli era così familiare! Si guardò attorno e si rese conto di sapere.
Il posto speciale.
Tutta la collina apparteneva a Eliot e custodiva i suoi ricordi più preziosi. L’aria della sera era intessuta dei sorrisi di Vivi. Ogni granello della terra che calpestavano era frutto delle storie di Hari. Ogni acino d’uva celava dentro di sé gli attimi trascorsi con Hernando. Ogni fiore era ciò che l’aveva mantenuta viva e felice di esserlo, nel bene e nel male. E poco più avanti…
Aleksej alzò lo sguardo, sicuro di trovare ciò che si immaginava: a pochi passi da loro c’era un basso muretto a secco di pietra serena quasi a picco sul fianco della collina, da cui si dominava tutto l’orizzonte.
Si sedettero su di esso quasi all’unisono, prendendo un lungo respiro: lisciando una pietra, Aleksej si vide attraverso occhi non suoi mentre usciva caracollando dal corpo del Leviatano, ubriaco come una botte di rum. Ne lisciò un’altra, e vide mani non sue stringere con forza una piccola scheggia di ghiaccio, una, cento, mille volte. Un’altra pietra ancora, e sentì un’anima non sua lacerarsi in mille pezzi mentre teneva il suo corpo senza vita fra le braccia in un lago di sangue. Ogni pietra era piena di calore e di dolore, di vento e crepuscolo, di ricordi annegati in altri ricordi. Ogni pietra era dolce e spaventosa e profumava d’autunno.
Mentre si districava lentamente in tutti quei ricordi non suoi, Aleksej colse sovrappensiero un filo d’erba: improvvisamente, lo stelo si allungò, si arrotolò e si ingrossò fino a sbocciare. Con grande sorpresa di Eliot, fra le mani del grande guerriero era fiorito uno sgargiante papavero rosso. Mentre Aleksej notava per la prima volta che – strano ma vero – non c’erano altri fiori di quel colore sul prato, nuovi papaveri spuntarono e sbocciarono prorompenti tutto intorno al muretto, e poi intorno ai pedoni delle viti, reclinando le teste appesantite dai petali giganteschi contro le pietre e i grappoli d’uva.
– È un po’ tardi per questo – commentò Eliot a bassa voce, con un sorriso profondamente imbarazzato. Ancora incerto, lui si rigirò il papavero fra le dita mentre lei lo osservava, assorta. – Chissà come sarebbe potuta andare, se le cose fossero state diverse.
Con un preciso colpo di polso, Aleksej le frustò la fronte con il fiore che aveva in mano, spargendo petali rossi ovunque e distraendola dai suoi pensieri. – Ha importanza?
– Proprio no – concluse Eliot ridendo, e gli appuntò un papavero fra i capelli.
***
Il cielo notturno li aveva avvolti placidamente in una coltre di velluto stellato, investendo ogni cosa di estate e lucciole. Eliot puntò il naso verso l’alto e respirò profondamente. – Finalmente questo luuuuuungo e interminabile giro è finito, quindi se vuoi posso mostrarti come si esce.
– Mhhhh. – Per tutta risposta, il grande guerriero scivolò giù dal muretto, stendendosi placidamente sulla sottile striscia di morbido prato che li separava dalla scarpata. – Ormai è notte… rimango un altro po’, dai.
Eliot non disse nulla riguardo al fatto che nelle sale di Shiva nessuno aveva più bisogno di dormire o di qualunque altra cosa e si accomodò accanto a lui, aggrappandosi furtivamente alla sua camicia con due dita.
– Ti ho sentita.
– Ahhh, troppo bravo.
Risero come i due stupidi che erano e poi rimasero in silenzio, spalla a spalla, ad assaporare quella serenità così densa e profonda.
Non c’era davvero più bisogno delle parole.