Erano almeno dieci giorni che quella benedetta donna dormiva sì e no un’ora per notte. Si alzava da quel tavolaccio (uno dei pochi non ancora sostituiti con altri più moderni e comodi) solo per espletare le essenziali funzioni corporali e metter su un bollitore di tè che avrebbe potuto dissetare tutti i novizi del tempio di Sirio per almeno una settimana (e che a lei bastava per non più di cinque ore). Cercava di impiegare il minor tempo possibile per adempiere a queste inevitabili seccature, dopodiché si immergeva nuovamente fra le pile di carte, libri e appunti che ormai si accalcavano sul tavolo, cercando febbrilmente un qualsiasi appiglio che le permettesse di aprire uno spiraglio di luce sui gravosi problemi che si era prefissa di risolvere. Le rare volte che si appisolava, lo faceva direttamente sulla scomoda sedia che si era scelta.
Dopo tutti quei mesi trascorsi lavorando sotto la sua impeccabile direzione, i novizi e gli apprendisti avevano finito per affezionarsi a lei e, quando si erano accorti che le profonde occhiaie rossastre che solcavano il volto della sacerdotessa s’ispessivano di giorno in giorno, avevano iniziato a preoccuparsi. Se Gus non avesse preso l’iniziativa di portarle un paio di pasti caldi al giorno, lei si sarebbe persino dimenticata di mangiare. Avevano anche provato a dirle di riposarsi un po’, ma la donna non aveva voluto sentir ragioni: li liquidava con un gesto secco della mano, sostenendo di essere in perfetta forma, sia fisica che mentale.
In effetti, anche se non alzava mai la testa dalle sue pergamene, le risposte a chi le chiedeva un parere, un consiglio o una direttiva erano sempre chiare, dirette e precise. Syddin stesso, ogni mattina, riceveva da lei disposizioni accurate riguardo ad ogni singola attività da svolgere.
L’aria di efficienza che, nonostante le sue condizioni, dama Melisenda continuava a mantenere aveva ingannato anche il fratello, inizialmente. Mastro Hakù aveva impiegato circa mezz’ora ad accorgersi che, sotto le lenti scure, gli occhi neri di sua sorella erano annegati in due borse ormai quasi violacee, e che i muscoli del viso erano tesi allo spasimo.
Appena giunto, seguito dalla solita invisibile manovra scaramantica dei presenti sui rispettivi gioielli di famiglia (quell’uomo pareva davvero una cornacchia iettatrice!), era salito sul soppalco e aveva intessuto un fitto conciliabolo con dama Melisenda, la quale non aveva mostrato nessun segno di stanchezza o di nervosismo.
Syddin non aveva capito una parola di ciò che si erano detti (entrambi parlavano in una lingua che lui non conosceva, probabilmente per evitare che orecchie troppo curiose potessero interessarsi ai loro discorsi), tuttavia entrambi avevano discusso di molte cose con tono piuttosto grave. Finché lei non aveva commesso l’errore di abbassare la guardia, togliendosi gli occhiali dinanzi al fratello per poter pulire le lenti.
Era stato in quel momento che Hakù aveva aggrottato un sopracciglio (per un tipo come lui, pensò Syddin, ciò doveva equivalere al massimo dell’esternazione dello stupore), si era alzato e aveva preso di peso la sorella, che gli aveva opposto una protesta troppo debole per sembrare credibile. Doveva davvero essere stanca, per permettergli un gesto simile.
Il samurai scese le scale con il suo fardello fra le braccia, il quale era visibilmente contrariato ma rassegnato al tempo stesso (cosa mai avrebbe potuto fare uno scricciolo di donna contro quell’omone?), e scomparve oltre il corridoio che portava alle stanze da letto degli ospiti della Biblioteca, diretto senza ombra di dubbio verso quella occupata da Melisenda.
“Finalmente qualcuno si è deciso a mettere a nanna la pupetta,” pensò Syddin. “Stava diventando più inquietante del solito, ed è tutto dire”.
– Tu devi saperlo… per forza… devi dirmelo…
Dopo aver adagiato la sorella sul suo giaciglio, il samurai si era seduto su una sedia accanto a lei, comunicandole (senza abbandonare l’idioma dei Colli di Giada, che la veggente sembrava conoscere bene quanto lui) la sua decisione irremovibile di rimanere con lei finché non si fosse adeguatamente riposata.
Melisenda era visibilmente contrariata, ma quello slancio di affetto inaspettato da parte di Hakù le aveva dato una piccola scossa. Forse la maschera di gelo del samurai non era poi così spessa come pensava… forse suo fratello non aveva ancora completamente il controllo delle sue emozioni… forse allora poteva chiedergli…
– … dimmi secondo te perché diamine avrebbe dovuto farlo.
Da quel giorno a Pian Moresco non ne avevano più riparlato insieme, faccia a faccia, sostenendo ognuno lo sguardo dell’altra. I loro animi erano troppo confusi, feriti e sconvolti perché vi potesse essere dialogo, o anche solo empatia. La rabbia e lo sgomento li avevano tenuti lontani dall’argomento per quasi un anno, e non era stato facile per nessuno dei due cercare di ragionare in modo lucido e razionale su ciò che era successo ormai vent’anni prima.
Il samurai aveva faticato non poco a prendere atto dell’accaduto: nonostante niente avrebbe potuto smuoverlo dalla convinzione che Kasumoto, suo padre adottivo e maestro, fosse un uomo dall’onore integerrimo, senza macchia e che gli aveva dato tutto l’amore che un genitore può dare a un figlio, era innegabile che, prima, quell’individuo dalla condotta così esemplare aveva abbandonato in modo incomprensibilmente spietato le persone che lo amavano così tanto.
Col tempo, anche Hakù aveva compreso che c’era qualcosa di anomalo. Ciò che sapeva della faccenda non bastava a giustificare un simile comportamento.
– Ti ricordi? Ti ricordi quel che ti diceva il maestro Ylon Sho a proposito del conflitto tra affetti e onore? Anche la famiglia e l’amore devono essere in alto nella scala di valori di un samurai, e possono esserlo senza diventare inconciliabili col resto… ricordi? Tradire l’amore può macchiare l’onore, quindi perché accidenti avrebbe dovuto farlo? Perché? E come, come è riuscito a trasmettere a te tutti gli insegnamenti che hai ricevuto, pur sapendo di aver rinunciato a coloro che lo amavano di più? E dopo averlo fatto in quel modo spregevole?
Sua sorella aveva ragione. Kasumoto Sushimada non poteva esser stato così falso con entrambi i suoi figli. Non lui.
Prima di venire a sapere di avere una sorellastra, Hakù non aveva mai sospettato che sul suo maestro pesasse una simile colpa, e nemmeno Melisenda si sarebbe mai aspettata che suo padre se ne sarebbe andato in modo così irragionevole e crudele.
Dopotutto, Kasumoto avrebbe potuto portare Hakù nel Deserto e crescerli insieme entrambi, anche se poi li avesse voluti educare a due strade molto diverse fra loro. Le giustificazioni che aveva addotto quando aveva lasciato la sua compagna di vita apparivano deboli anche agli occhi del suo erede, imbevuto fino al midollo della dottrina del bushido e dell’onore. No, ci doveva essere un’altra spiegazione.
Entrambi se lo chiedevano da troppo tempo. Era ora di parlarne.
– È vero, sorella mia. Non posso darti torto. Per quel che ne sappiamo, tutto ciò ha davvero poco senso… nemmeno io riesco a spiegarmi perché nostro padre abbia agito in quel modo…
Improvvisamente Hakù ebbe un’illuminazione. – A meno che…
Sì, in effetti c’era invece qualcosa che, magari, avrebbe potuto spiegare una scelta così apparentemente poco ragionevole e inutilmente dolorosa. Sembrava pazzesco e non ci credeva molto pure lui, ma lo disse lo stesso.
– …se fosse stato il suo Signore ad ordinarglielo, non si sarebbe mai e poi mai rifiutato di farlo. La parola del suo Signore è tutto per un samurai…
Melisenda scosse la testa, ma un campanello aveva tintinnato nella sua mente. – Sì certo.. ma questa è un’assurdità, perché lui non aveva un Signore… non lo aveva, vero?
Hakù fece spallucce. – Non che io sappia, in verità. Fino a un anno fa lo avrei escluso categoricamente, in quanto non me ne aveva mai parlato ed eravamo sempre insieme, quindi non avevo motivo di pensare che mi tenesse all’oscuro di qualcosa. Ma… a questo punto… visto che io voglio continuare a credere che lui sia l’uomo integerrimo e dall’onore intatto che mi ha insegnato tutto ciò che so… preferisco pensare che avesse ricevuto un ordine dal quale non potesse sottrarsi… anche se non ho davvero alcuna idea di chi potesse essere il suo Signore…
La veggente si rabbuiò. – A me invece in passato riusciva talmente facile pensare che fosse solo un lurido farabutto della peggior specie… ma poi, visto come ha cresciuto te… non è possibile… non lo credo più possibile… Però non capisco lo stesso: ma che interesse avrebbe avuto il suo Signore a dirgli di andarsene in quel modo dal Deserto? Che scopo voleva ottenere? E perché poi tu non hai mai saputo o sospettato nulla dell’esistenza di questo fantomatico Signore? Perché…
La voce di Melisenda si spense. Un pensiero si affacciò nella sua mente, lo stesso che da molto tempo ormai cercava di scacciare ogni qualvolta arrivava. Eppure tutto era troppo assurdo e strano… troppe coincidenze… troppi angoli oscuri… rivedeva nitidamente una mano che la tratteneva, ricordava i suoi inusuali studi da Prima Veggente, le risuonava in testa un giuramento solenne toccatole in sorte in una notte stellata di otto anni prima… ma, se anche fosse stato, perché, che diamine, PERCHÉ lei avrebbe dovuto farlo? Perché provocare tanta infelicità, tanto odio, tanta morte e distruzione nelle vite delle persone che era tenuta ad amare e guidare? Perché, maledizione?
Non era ancora pronta ad accettare un’idea del genere. Dopotutto, erano solo supposizioni. Rabbrividì.
Ormai, inoltre, il sonno si stava insinuando nelle sue membra.
Hakù sospirò lievemente. Era confuso: gli seccava ammetterlo, ma le sue certezze non erano più così salde come in passato. Molte erano le cose che ancora non conosceva e nulla, dopotutto, era mai esattamente come sembrava in superficie. Anche nelle faccende più limpide c’erano comunque delle sfumature che non dovevano esser trascurate.
Inoltre, credeva di aver sotto controllo tutti i suoi sentimenti e di averli frenati e raffreddati a dovere, e invece era costretto ad ammettere che ancora la fiamma dell’affetto non si era del tutto sopita in lui.
Voleva davvero bene a sua sorella. Le dispiaceva davvero per lei. Voleva davvero starle vicino in qualche modo.
– Ora è meglio che tu riposi, però… potrei raccontarti una storia, per distrarti da questi pensieri…
Melisenda sorrise, fra lo spaesato e il sorpreso. – Beh… sì… grazie. Per favore. Sì… mi farebbe piacere.
Il samurai prese un lungo respiro e iniziò a raccontare con voce pacata, velata da una nota di dolcezza che da tempo non usciva più dalla sua gola.
Scelse di narrarle la favola che più aveva amato quando era ancora bambino… parlava di un giovane pescatore generoso e di un pesce dalla coda dorata che implorava che gli venisse resa la libertà… in cambio avrebbe esaudito un desiderio del ragazzo… qualunque esso fosse… e per il giovane sarebbe iniziata una grande avventura, che l’avrebbe portato lontano, esaltando la nobiltà del suo spirito e del suo ingegno, e gli avrebbe fatto trovare la vera ricchezza, che consisteva proprio nel ritorno a casa, in mezzo alle persone che amava…
Stava quasi per terminare la storia quando si accorse che Melisenda si era finalmente addormentata.
Tuttavia, i pugni erano contratti, e il volto era rigato da profondi solchi di lacrime, che avevano intriso tutto il cuscino.
Solo in quel momento Hakù si rese conto di aver mancato completamente di tatto: che tormento doveva esser stato, per lei, ascoltarlo narrare una storia che doveva conoscere molto bene, da prima che lui nascesse! Soltanto, in quel tempo remoto la voce narrante doveva esser stata quella grave e profonda di Kasumoto. Che ingenuo era stato a non pensarci.
Eppure Melisenda non aveva fiatato. Lo aveva lasciato proseguire. Pur di non mortificare il suo tentativo di starle vicino, aveva sopportato silenziosamente un’ondata di ricordi che doveva esser stata davvero straziante per lei.
Il samurai non poté far altro che pensare che, dopotutto, sua sorella era davvero la degna figlia di un Dragone di Giada… di certo molto più di quanto lei sarebbe mai stata disposta ad ammettere.
Hakù le sistemò le coperte con delicatezza. La sacerdotessa non si toglieva il velo nemmeno per dormire, ma lui le passò comunque una mano fra i capelli, con una tenerezza che non provava da molto tempo per nessuno. Ripensò a se stesso da piccolo, sulla riva del fiume, mentre pescava con una corta canna di bambù accanto a suo padre. Per un attimo, si accorse che stava cercando di immaginare come poteva essere Melisenda da ragazzina, per trovarle un posto in quel ricordo. E improvvisamente comparve nei suoi pensieri anche la figura sbiadita di una bellissima donna di cui possedeva solo un ritratto a matita.
Una morsa gli strinse lo stomaco.
Finalmente era riuscito a comprendere il punto di vista di sua sorella.
Quando, circa un giorno e mezzo dopo, alla fine riuscì a svegliarsi, sul cuscino, accanto alla sua testa, Melisenda trovò un appunto e una pergamena arrotolata.
Se non c’è nulla di urgentissimo e essenziale nelle nostre ricerche, ci rivedremo al Sinodo.
Riposati.
Hakù
PS: anche io so disegnare.”
La veggente srotolò la pergamena. Le sue dita si irrigidirono quando si ritrovò a fissare gli inconfondibili lineamenti del volto nobile e delicato di Kasumoto Sushimada. Solo, con centinaia e centinaia di rughe in più di come se lo ricordava, e un’espressione di velata tristezza che non gli aveva mai visto.
“Allora” rifletté, “dopo tutto hai sofferto… hai sofferto anche tu, abu…
E’ commuoventissimo, sul serio… e Haku è così coccoloso…
Vero, eh? Chi l’avrebbe mai detto…