Non sapeva più dov’era. Aveva camminato a lungo, come ai vecchi tempi, quando quelle terre erano sicure, senza curarsi troppo di quello che succedeva attorno a lui, intrappolato nel filo dei suoi pensieri. Aveva salutato Haku, affranto nel suo recente lutto; aveva accompagnato la salma di Felix insieme a Ayleen, Gith e Dahal in un posto in cui potessero richiamare l’anima del suo giovane amico tra i viventi; poi era partito e aveva camminato. Cinque lunghi giorni. Non gli pesava l’armatura addosso, ormai parte di lui dopo il lungo allenamento estivo, e comunque non sentiva la fatica. La spada al fianco doveva essere una presenza rassicurante, ma niente riusciva a rassicurarlo, adesso, e così si limitava a non essere d’ingombro. Camminava a testa bassa, meccanicamente, ascoltando le voci che si agitavano dentro di lui. Niente lo interessava, lo smuoveva, arenato sul fondo di un pantano troppo profondo per uscirne ma troppo basso per affogarvici. I capelli avevano ormai perso il laccio che li teneva uniti, e gli accarezzavano morbidamente il collo; ma lui non voleva nessuna carezza, nessun gesto di conforto. Voleva stare solo con sé stesso. Fu così che per scostarli alzò la testa per un istante, e nel buio della notte vide la luna.
Per un istante ebbe l’impressione che la falce lunare fosse un sorriso sghembo diretto a lui, come dicesse "Da quanto tempo non ci vediamo, Alehandro". Il cielo notturno che da qualche anno ormai guardava non era più foriero di pace e serenità. Era cattivo, sadicamente ironico, e latore di orribili segreti. Guardava con scherno l’inutile affannarsi dei mortali, li derideva, spettatore sguaiato in quella triste opera teatrale. Un settimana prima il cielo era stato solcato da alcune scie dorate, una pioggia mai vista di stelle cadenti; la gente aveva chiamato quell’evento "notte delle Lacrime Celesti". C’era bisogno di speranza, ognuno cercava conforto come poteva, anche pensando che il cielo versasse qualche lacrima per lui. Per come la vedeva Alehandro, il cielo stava ridendo così tanto di loro sino a piangere.
Si mise a sedere. Invidiava quelli che avevano una fede ferrea, che guardando sopra di loro vedevano un aiuto, una forza amica che tendesse loro una mano. Lui, invece, non aveva mai creduto in altro che nelle proprie forze, in quello che le sue mani potevano raggiungere e afferrare, e adesso che tutto gli pareva sfuggente, che i suoi giorni erano animati da figure incontenibili in normali schemi di ragionamento, si sentiva frustrato e prostrato.
Vicino a dove si era seduto era presente una piccola polla d’acqua limpida, che rifletteva timidamente la poca luce delle prime ore notturne. Provò a specchiarvisi, e quello che vide lo spaventò. Un uomo dal volto contratto in una smorfia di dolore, gli occhi rossi di chi voleva piangere ma non ci riusciva, trasandato e malsano; il volto di un uomo che aveva visto demoni e samurai tornati dall’Oltretomba, aveva visto amici morire, che era lui stesso morto una volta. Un uomo stanco e provato. Rassegnato. No, doveva riscuotersi, lo sapeva, e l’avrebbe rifatto. Rifatto? Già, non era la prima volta che si sentiva così depresso e inutile. E la sua mente andò subito a quel giorno, il giorno in cui il suo mondo iniziò a sbriciolarsi.
* * *
I passi erano sempre più forti, la calca si avvicinava. Una massa di uomini, donne, vecchi, che brandivano torce. Tra loro, lampi di bianco ed azzurro, lame di ghiaccio che decretavano la loro condanna, i membri della Rosa Damoclis, gli Inquisitori. Quelli che ieri avevano riso con loro, adesso erano pronti ad immolarli per salvare le loro anime, e marciavano compatti verso il tendone scarlatto del circo. Alehandro corse con quanto fiato aveva in corpo verso il carrozzone del capo, e lo trovò che stava uscendo tranquillamente. Un omone alto oltre sette piedi, dalla pelle rossa e scagliosa, gli occhi gialli come quelli dei serpenti, il volto dai tratti severi, capace di essere gentile e premuroso sopra ogni immaginazione; Desmond, il capo del circo, per metà uomo e per metà figlio della stirpe draconica. Gli sorrideva mestamente, con i denti aguzzi in vista, una vista che avrebbe spaventato chiunque non lo conoscesse. La sua voce potente e bassa bloccò Alehandro prima che potesse dire alcunché.
– Noi non combatteremo con quella gente.
– Ma ci macelleranno come le bestie!- protestò Alehandro, ben più giovane e impulsivo. Non voleva perdere quel posto a lui così caro, ma Desmond scosse il capo.
– Noi non siamo assassini. Non toccheremo nessuna di quelle persone. Siamo venuti qui per renderli felici, e questo è l’ultimo atto dello spettacolo, Alehandro.
Il giovane scosse il capo con forza, gli occhi gonfi di lacrime e paura, troppo inorridito per dire anche solo una parola. Si girò, e corse con foga, con quanto fiato aveva in corpo verso la schiera umana in avvicinamento. Sentiva la sua voce urlare:
– NON HANNO FATTO NIENTE DI MALE! NON HANNO MAI FATTO NIENTE A NESSUNO!
Cadde nella polvere, cercando di inginocchiarsi innanzi ad uno degli Inquisitori; voleva far capire loro che i suoi compagni, i membri del Circo, potevano sembrare strani, ma nei loro atti si vedeva una quantità di bontà infinita. Erano le loro azioni, che dovevano parlare!
Il calcio dell’Inquisitore lo raggiunse in pieno stomaco mentre provava a rialzarsi, e da quel momento i ricordi si fanno annebbiati. Ricorda la folla che lo insultava, chiamandolo “figlio dei demoni”, “bastardo infedele”, e l’Inquisitore che condannava al rogo tutti quelli che si sarebbero opposti. Vide un’ombra rossa, la sagoma di Desmond, pararsi innanzi a lui colpendo con forza l’Inquisitore. Sentì le sue ultime parole…
– Questo spettacolo non è per lei, mi dispiace.
Poi, con sguardo triste, si voltò. Con gli occhi intimava ad Alehandro una fuga rapida, cercando di portare con sé quanta più gente possibile. Ed Alehandro si alzava, correva, mentre il suo vecchio amico gli copriva la fuga, e già gli Inquisitori erano addosso a Desmond, con i loro uncini da tortura, per scorticarlo come un animale pregiato, un trofeo. E lui correva ancora, piangendo. Afferrava per un braccio Melisenda, mentre questa spuntava stupita da dentro un carrozzone. Melisenda l’avevo detto, l’aveva visto nei suoi sogni, e lui non le aveva dato retta, sciocco… Faceva in tempo a richiamare Garelinar, maledetto, dolce pazzo, lui e il suo sangue per metà drow… Lo avrebbero giudicato e ucciso per colpe non sue… Ma quale colpa è poi essere differenti? Quella gente non capiva… Ma intanto ancora fiamme, e fumo, e urla, circensi, amici che cercano di fuggire, di difendersi, e vengono ripresi e giudicati seduta stante, e sangue, e ancora urla, e Dahal che mi chiama a gran voce e io no non posso tornare devo pensare a Melisenda e Garelinar gli dico scappa e lui corre lo perdo di vista e fuoco e morte e terrore e la iustitia divina che stermina ciecamente i suoi figli e io io cosa posso fare oltre fuggire Desmond nel fuoco le ombre ballano aiuto cosa posso fare io Alehandro cosa rimane oggi di quello che era stamani e ancora fumo e sangue e correte più veloci e il buio e l’aria e siamo salvi adesso e adesso…
* * *
Il suo corpo non smetterà mai di tremare pensando a quel giorno. Non vide più alcuna speranza innanzi a sé, solo la più cupa disperazione. Tutto quello in cui credeva era caduto, come un castello di carte sospinto dal vento, in pochi istanti. E oggi si sentiva nello stesso modo. Aveva visto troppi amici morire, troppi tradimenti, subdoli inganni, sordide trame, ognuno pronto a sacrificare l’altro per i propri interessi personali, e solo lui e i suoi amici ne subivano le tremende conseguenza.
Eppure, stavolta fu la luna stessa a confortarlo. Alehandro la guardò intensamente, con odio, poi pensò.
“La luna c’è sempre stata”.
La luna era tramontata e sorta centinaia di volte, da quel giorno. Se ne andava alla prima luce, e tornava al calare della notte. La sua falce non era quella dell’assassino, ma la Mietitrice Imparziale, colei che calava per tutti, senza scelta. La cosa che lo confortava era che, come l’aveva vista nei giorni di tristezza, così l’aveva guardata nei tempi felici. La luna cala e la luna ritorna.
“E così sarà per noi”.
Non sapeva come, ma sarebbero tornati, i bei tempi. Aveva riportato nella sua vita la serenità, seppur con fatica, dopo il giorno in cui il Circo fu distrutto. Eppure, con le sue mani fece di tutto per ricostruirla, e raggiunse il suo nuovo obiettivo, fondando un nuovo Circo, in cui la memoria dei suoi compagni avrebbe trovato onore e giustizia. Perché anche i Circensi hanno un’etica, e la regola numero uno è “Lo spettacolo deve continuare”. Un applauso per i vecchi attori, in scena quelli nuovi. Lo spettacolo giungerà al finale, comunque sia, e saranno grida di giubilo e festa, ne era sicuro. Sì, tutta quella tremenda situazione, tutto si sarebbe risolto. Felix sarebbe tornato tra i vivi, ed ogni casella avrebbe ritrovato la sua collocazione nel mosaico. Che strano. Proprio nell’ora più buia aveva iniziato a ritrovare la speranza. Quasi buffo.
Si voltò, contemplando il sentiero da cui era venuto. Doveva andare a trovare i suoi amici, non li poteva abbandonare. Solo insieme ce la potevano fare. Sul volto comparve un’espressione insieme divertita ed irritata. La sua voce risuonò nella notte silenziosa.
– Ma quanto diavolo ho camminato!
Iniziava il ritorno.
Dei, più leggo le vostre storie più vi invidio, mi piacerebbe far parte di Whanel. In ogni caso grazie perché leggendo queste perle posso capire cosa significhi esserci.
Frank: come ti dicevo ieri sera… ma quanto è bello e malinconico il poro Alehandro sotto la luna, con caricati sulle spalle tutti i problemi degli altri…
Eli: beh, dai, alla fin fine è un po’ come tu ci fossi! Peccato che abiti non proprio dietro l’angolo…
E non c’è niente da fare… Noctulio scrive troppo bene!!!!
Devo dire che non conoscevo la storia di Alehandro (e ancora so poco), però è proprio suggestiva…
stai a vedere che quello che sta meglio tra tutti è Misha!
= )
Misha: secondo me è probabile… l’uomo col gatto a strisce sulla testa alla fin fine non ha patito tanto!
Quando ti decidi a postare il tuo background?
appena riesco a metterci le mani sopra e finirlo! Tra pustole, armi in lattice, fiere del fumetto, revisioni di regolamento ecc…
Sei peggio di Frank.
Evviva il Frank che posta!!! 😀
Bello bello!!!
quindi anche Alheandro non ha avuto vita facile…Povero!!!!!
Perchè non istituiamo il Frank come unità di misura del ritardo dei post (o della lentezza nello scrivere)? Un Frank equivarebbe al rapporto tra il tempo passato dall’ultimo racconto e il tempo che si intendeva aspettare per leggerne un altro… Tanto per darci una regola! Del tipo: “Miseria, sei lento tre frank!” oppure “Sono sette frank che non scrivi niente, fancazzista!” e via del genere…
Come al solito hai delle idee geniali, anche se con tempi paragonabili solo ai Tempi Spossati…
Mi piace molto questa cosa!
Allora, stavolta quanti Frank vuoi farci attendere? Brutta merda, sei peggio di Sebastian!
A un conto veloce, sono trenta frank che aspetti la “terza parte”… Mettiamo la terza parte come multiplo del frank (quando la consegnerò, ovvio…)?
Attento che come multiplo non diventi troppo grande… tipo grammo vs. tonnellata…