– Una birra scura e un letto pulito, grazie.
Il sole si era già adagiato dietro l’orizzonte, quando il viandante entrò nella locanda. Aveva osservato il suo percorso discendente nell’azzurro cielo primaverile, e si era beato dell’aura rosata con cui la luce morente aveva incoronato le fronde degli alberi sul limitare sud-orientale delle Foreste del Sole. Dopo una giornata di faticoso cammino, l’uomo aveva finalmente raggiunto un minuscolo centro abitato, poco più di una decina di capanne di boscaioli con relative famiglie. Le abitazioni, tuttavia, erano costruite con perizia, lavorate da mani attente, in apparenza solide e tenaci come gli animi dei suoi abitanti. Gente probabilmente poco abituata agli stranieri, visti gli sguardi che sia coloro che ritornavano alle proprie magioni che l’oste stesso rivolsero all’inatteso viaggiatore. Non a torto, l’aspetto del viandante era abbastanza bizzarro; la pelle era bronzata, rovinata, come una vecchia bisaccia, conferendo all’uomo un aspetto trasandato. Lunghi capelli candidi, legati in una elegante coda, decoravano la sommità del capo; il volto risultava essere quello di un vecchio magrissimo e rugoso, dagli zigomi alti e dalle labbra sottilissime di un malsano colore scuro, e con un sottile pizzetto candido lungo una spanna. Gli occhi scuri, impreziositi da un taglio delicato e da sopracciglia bianche ben curate, scrutavano placidi l’ambiente intorno a lui; le vesti grigie, una volte preziose, risultavano ora sciupate da un lungo viaggio, e ricadevano scomposte su un corpo avvizzito e gobbo. Il passo incerto era appena sostenuto da un bastone di metallo pieno, all’apparenza molto pesante, ornato sulla sommità da un anello dorato con campanellini sonanti. Proprio il tintinnare dell’oggetto aveva dapprima attirato l’attenzione dei più, che si erano quindi insospettiti dell’apparizione della figura. Se ne era accorto, il vecchio, di quegli occhi su di lui, ma una volta entrato in locanda il suo unico pensiero era stato quello di riposarsi, indifferente alle brusche occhiate dell’oste. Sedendosi su uno dei bassi sgabelli al bancone, con voce ferma e flautata ripeté il suo ordine.
– Una birra scura e un letto pulito, grazie.
Il locandiere, un omaccione dalla stazza notevole, volto largo e rubizzo su collo taurino, bofonchiò solo allora un segno di assenso, e si preparò a spillare la bevanda in un boccale. A voce alta, interrogò sospettoso il nuovo arrivato.
– Non abbiamo letti, qui. Se vuole, le posso allestire un giaciglio accanto al fuoco.
– Va benissimo così, allora. Grazie mille- ringraziò l’anziano.
Mentre l’oste si apprestava a organizzare un improvvisato pagliericcio a debita distanza dal camino, l’uomo colse l’occasione per guardarsi intorno. Scrutò l’interno della minuscola locanda, l’unica del villaggio, e i suoi scaffali a muro ricolmi di ogni sorta di oggetto, utensile o cibaria. Probabilmente fungeva anche da emporio, date le scarse dimensioni dell’abitato. Un posto tranquillo…
– Ecco pronto, messere. Dopo l’ora di chiusura, stasera, sarà libero di riposarsi qui, mentre io sarò nella stanza qui accanto per ogni evenienza. Sono due corone.
L’oro non era un problema per il viandante, ma tra sè e sè rimuginò sul prezzo esoso della consumazione e del pernottamento. Dato i tempi che correvano, non si stupì più di tanto.
– Purtroppo ho precise disposizioni, messere, e mi deve lasciare il nome- interloquì nel frattempo l’oste. L’uomo acconsentì sorridendo, con un cenno di capo. Poteva permettersi di dire il suo vero nome, qui.
– Jorge. Mastro Jorge Desmortes. Per servirla.
* * *
Accucciato sotto la coperta accanto al fuoco, Jorge scrutava assonnato la notte fuori dalla finestra. Troppo buio anche solo per distinguere la casa di fronte, poiché le stelle si nascondevano pudiche dietro nubi improvvise portate da un vento impetuoso nella prima nottata. E ora, il vento ululante fuori, il vecchio si stava godendo la tranquillità del piccolo villaggio. “Difficile trovarne di questi tempi”, rimuginò tra sè e sè. Le altre terre erano sotto l’infame morsa dei Quattro Signori del Fato, un giogo pesantissimo e opprimente; la popolazione era prostrata, ridotta allo stremo dalle assurde esigenze dei loro aguzzini. Le imposte allucinanti non erano che un aspetto marginale della situazione; erano le sevizie, le angherie, le crudeltà all’ordine del giorno, amministrate arbitrariamente dai puri capricci degli oppressori, a rendere la vita un inferno. Con dolore Jorge ripensò ai giorni in cui lavorava per i Quattro nella veste di sacerdote arcanista; il suo acume aveva escogitato rituali capaci di strappare l’anima stessa dal corpo, con strazio indicibile, una vera e propria macchina di tortura eccezionale. Come fece ad accorgersi che tutto questo era sbagliato gli risultava ancora incomprensibile; iniziò gradualmente a trovare la morte che distribuiva dapprima noiosa, fino a quando non iniziò a disgustarlo profondamente, riconoscendola per l’azione inumana e aberrante che era. La sua coscienza era infine emersa dalla coltre di oscurità che la avvolgeva, a fatica, e l’aveva spinto ad un estremo atto di ribellione; con le forze arcane che riusciva a padroneggiare, aveva liberato tutti i prigionieri dall’avamposto sulle Cime Guardiane del Sud in cui era stanziato, ed era scappato con loro. Questo era ormai accaduto più di vent’anni prima, ma l’insubordinazione di cui si era macchiato non era mai stata dimenticata, e tuttora il nome di Jorge Desmortes risultava nella lista delle teste che i Quattro avrebbero preferito vedere su un vassoio. Eppure, pur sapendo a quel che andava incontro, Jorge non si era fermato nella sua opera di disturbo; si era stanziato su un vecchio faro-torre sulla Costa del Sangue, e periodicamente attraversava le terre dell’Occaso alla ricerca di segni che dessero a sperare l’inizio di una rivolta. Anche questo viaggio, tuttavia, era risultato infruttuoso; la Gilda dei Liberimercatori, il consiglio di mercanti che amministrava queste zone, temeva possibili ritorsioni da parte dei Quattro se avesse accolto ribelli in seno, così pur non appoggiandoli reprimevano sul nascere ogni accenno di rivoluzione. Solo le Foreste del Sole, a oriente delle terre dell’Occaso e a sud delle Cime Guardiane, apparivano ancora come un luogo tranquillo e incontaminato, grazie alla presenza di sacche di guerrieri elfi che, sfruttando al meglio la loro perizia balistica e la conoscenza del territorio, riuscivano a tenere lontane le truppe dei Quattro con azioni di guerriglia. Per questo il villaggio in cui adesso si trovava era così pacifico, epurato dalla presenza dell’infame aguzzino, e per questo era così difficile trovare luoghi del genere. “Una piccola oasi incontaminata”, pensò sommessamente Jorge sorridendo. Non avrebbe trovato nessuno qui che avrebbe osteggiato i Quattro, ma andava bene lo stesso.
* * *
La mattina del giorno successivo Jorge si lasciò cullare un po’ troppo dal sonno, e sebbene il suo giaciglio non fosse il massimo quando si alzò il sole era già alto. L’emporio era aperto, e una donna corpulenta dal naso porcino, con un paniere in mano, lo stava osservando disgustata. Lisciandosi la barba, gli occhi ancora socchiusi, il vecchio esibì il suo miglior sorriso, ricevendo in cambio solo un grugnito di disapprovazione. Gli stranieri non erano proprio sopportati, e l’anziano colse l’occasione per pagare l’oste ed andarsene. Uscì a piccoli passi nell’aria fresca del villaggio, inspirando a pieni polmoni gli odori della foresta mischiati a quelli cittadini, in una strana e artificiosa armonia. Tutte le case del borgo erano abbastanza distanti tra loro per formare un reticolato di piccole piazze in terra battuta, presso le quali gli abitanti accatastavano i loro oggetti da lavoro e i ragazzi giocavano rumorosamente. I rumori del luogo davano a pensare ad un’attività frenetica e industriosa, come se il lavoro fosse l’unica ragione di vita di questo posto e gli desse ritmo e respiro vitale.
Era assorto in questi pensieri, quando udì un tonfo sordo nella piazza che stava attraversando, rapidamente seguito da un’altro uguale. Si voltò istintivamente, e vide una scena come molte se ne vedevano tra i giovanotti, specie nelle zone più periferiche delle città o nei villaggi come questo. Quattro ragazzi sui dodici anni, sul limitare della piazza, stavano tirando sassi contro la piccola veranda di una delle case; qui, nascosto dietro una delle colonne di legno, accucciato e tremante, stava un’altro ragazzo della stessa età. Le risate sguaiate dei primi erano intervallate da ingiurie e improperi urlati in direzione del ragazzo al riparo, bersaglio del loro scherno.
– Non sei buono a niente! Coniglio! Coniglio!
Jorge sospirò, osservando la scena. Erano bambini, e andavano lasciati fare; d’altra parte, se un sasso avesse colpito qualcuno, avrebbe potuto fargli male sul serio. Fu così che decise di intromettersi; si avvicinò placidamente al gruppetto degli scalmanati, poi con un fischio modulato attirò per qualche istante la loro attenzione. Sorridendo, l’anziano li salutò con un inchino, lasciando interdetti i ragazzi, poi prese una moneta e iniziò a farla scorrere rapidamente tra le dita. la sassaiola si interruppe subito, e i giovani rimasero estasiati a osservare quella moneta che rotolava, saltava, si nascondeva e riappariva tra le dita ossute di quello strano vecchio. Con la coda dell’occhio, Jorge si curò che il ragazzo nascosto stesse bene, e lo trovò appollaiato sulla balaustra della veranda, intento anche lui a guardare lo spettacolo. Non sapeva perchè, ma quel ragazzo aveva qualcosa di strano, e lui lo avrebbe scoperto. Con un ultimo scatto della mano, la corona d’oro che teneva in mano scomparve, e sul palmo apparvero quattro piastre d’argento. Le porse con una risata ai quattro monelli, che allungarono le loro avide manine sul bottino ancora prima che l’anziano potesse dire alcunché. Partirono rapidi di corsa, scomparendo subito dietro un angolo, ma le loro urla gioiose sparirono ben dopo di loro. Fu così che Jorge si avvicinò al ragazzo sulla veranda, scrollando la polvere dalle vesti grigie, e lo squadrò da capo a piedi; un giovane magro, dalle vesti rammendate, con un viso smunto ed emaciato, su cui spiccavano due brillanti occhi azzurri come il ghiaccio, dallo sguardo fermo e attento. Sebbene fosse sporco e dolorante, il corpo ancora scosso da tremiti e singhiozzi, gli occhi non tradivano alcuna paura, e ricambiavano senza timore lo sguardo dell’osservatore. Il vecchio tirò fuori dalla bisaccia un fazzoletto bianco, e lo strofinò sulla guancia del ragazzo, che non si spostò all’avvicinarsi dello straniero.
– Tutto bene?- lo interrogò Jorge, con aria seria. Il ragazzo si limitò ad annuire, e l’anziano si rialzò puntellandosi al bastone metallico. Solo allora notò che il ragazzo teneva sotto braccio un vecchio tomo dalla copertina in cuoio ribattuta in metallo, all’apparenza nuovo e costoso. Come se stesse leggendo la sua curiosità, il ragazzo alzò il volume sopra la testa, per farlo osservare all’anziano signore; con voce ferma, fin troppo greve per la sua età, illustrò il contenuto del libro.
– È un manuale di scherma di mio padre. Quei ragazzi lo volevano per vedere le figure, ignorando il contenuto, e io mi sono rifiutato. Serviva a me, e non l’avrei affidato a quegli zotici.
Con aria seria, Jorge inarcò un sopracciglio. Quel giovane sembrava fin troppo adulto e consapevole.
– Non sei molto gentile con i tuoi coetanei.
Il ragazzo fece spallucce, indicando il suo completo disinteresse nei confronti degli altri. Era strano, continuò a rimuginare Jorge, trovare un ragazzo con questa fermezza e convinzione; anche se le azioni tradivano paura, capì che in realtà nascondevano un profondo disprezzo per gli altri.
-Andiamo, riportiamo quel libro a tuo padre.
– Mio padre è morto.
Brutta gaffe, accusò Jorge. Cercò di mugolare un dispiacere, ma era ancora stupito dalla mancanza di emozioni totali di fronte a quell’evento traumatico da parte del ragazzo. Aveva parlato come se l’avvenimento fosse accaduto a qualcun’altro, e la cosa non lo tangesse. Il vecchio iniziò a capire cosa aveva trovato d’interessante in lui, di primo acchito, e cosa potesse nascondere. Sapeva su cosa doveva andare a indagare, se la sua intuizione era giusta.
– Spiegami una cosa, giovane… Cosa ne vorresti fare della scherma appresa da quelle pagine?
Il ragazzo ci pensò su un istante.
– Non saprei, non sono molto bravo. Non ci sono portato per niente, ma…
Abbassò gli occhi a terra, aggrottando la fronte e stringendo le labbra fino a farle diventare una linea sottile e irosa. I pugni serrati con forza tremavano sensibilmente.
– … difenderei la mia vita, e ucciderei coloro che intralciano il mio cammino.
Un brivido freddo corse per la schiena di Jorge, di fronte alla rabbia mostrata dal giovane innanzi a lui. Poi, misteriosamente, il bastone di metallo che impugnava iniziò a riscaldarsi a pari passo con la furia che animava le parole del ragazzo, sino a diventare incandescente e non fu costretto a buttarlo di scatto a terra. Il rumore della caduta sembrò destare il giovane dai suoi pensieri, che alzò la testa incuriosito. Un largo sorriso, che più si addiceva alla sua età, gli si dipinse in volto, mentre camminando all’indietro iniziò a tornare in casa.
– Comunque grazie mille, signore. Le va di rimanere a pranzo.
Jorge annuì con aria seria, mentre raccoglieva il bastone. Era ancora caldo. Non era stata un’illusione. Quel ragazzo aveva del potere, e lui l’avrebbe coltivato.
– Come ti chiami, giovane?
Il ragazzo si fermò sulla porta di casa, voltandosi fino a dargli le spalle, quasi con sdegno; poi , senza guardarlo, gli rispose con voce seria, senza alcuna emozione.
– Noctulis Xandauter, messere. Piacere suo.
* * *
La madre di Noctulis accolse l’ospite del figlio con entusiasmo, ringraziandolo per aver tolto il ragazzo dalle grinfie dei monelli del luogo. Era una donna minuta, dalla pelle liscia e chiara; i tratti delicati e aggraziati e le forme appena accennate sotto le vesti dimesse davano a pensare che il tempo stesso l’avesse levigata e limata con cura. Da lei Noctulis aveva ereditato il colore degli occhi, la carnagione e la tinta castana molto chiara dei capelli. Il figlio, dopo aver introdotto l’ospite, si ritirò in veranda a leggere nuovamente, sotto lo sguardo amorevole della madre.
– Mi chiamo Layla, messere. Spero che si accontenterà del nostro umile desco.
L’anziano, sedutosi su una sedia, cercò di schernirsi.
– Non si preoccupi, signora, anzi mi dica cosa devo fare. E mi chiami Jorge, per favore.
Sotto le istruzioni della signora, anche Jorge iniziò a preparare il pranzo, affettando le verdure per la minestra. Layla era una donna intelligente e acuta, con una buona istruzione impartitagli dall’anziano del villaggio, ed aveva insegnato tutto quello che sapeva al figlio. Tra i due c’era un ottimo rapporto, specialmente dopo che lei era rimasta vedova due anni prima. Una nota di dolore le tinse la voce, mentre spiegava come il marito Olivander, due anni prima, era perito in una sanguinosa battaglia. Olivander, dopo il matrimonio, era entrato a far parte di un gruppo di ribelli; nel suo cuore c’era posto solo per la moglie e per la fede nel suo dio, Alhazhar, che guidava i suoi passi in battaglia. Combatté a lungo sulle Cime Guardiane contro le truppe dei Quattro, ritornando a casa periodicamente per prendersi cura dell’unico figlio. Un giorno, però, della sua truppa tornò solamente un giovane, con ferite tali che morì subito dopo aver riferito gli avvenimenti che li avevano condotti alla disfatta. Alcuni orchi avevano deciso di attaccare i confini delle Foreste del Sole, intenzionati a raccogliere legno per fabbricare archi, e avrebbero trucidato chiunque si fosse frapposto a loro. Pochi uomini contro decine di orchi combatterono in una delle gole tra le alte montagne; fu un massacro, e Olivander fino all’ultimo impedì che anche solo un orco potesse passare oltre. Il corpo cadde morto solo dopo che l’ultimo degli orchi morì, e fece in tempo a ordinare a chi poteva di andarsene; ma non c’era più nessuno, in grado di andarsene, e l’unico che ce l’aveva fatta era fatalmente ferito. Così Noctulis era rimasto orfano, senza la figura guida che tanto amava e che la madre decise di non rimpiazzare con nessun altro uomo; i due rimasero soli, legati da un affetto sincero, non dettato dalla disperazione.
– Noctulis, però, è così strano. Preferisce studiare e allenarsi da solo che giocare con gli altri, e anche quando vede che quello che sta facendo è senza frutto continua a perseverare. – Layla emise un profondo sospiro, continuando a triturare alcune erbe. – È come se l’ombra del padre, che tutti descrivono come un eroe, gli gravasse sopra e lui non si sentisse all’altezza. Eppure lui è lui, e suo padre era suo padre.
Jorge annuì. Accadeva spesso che molti incantatori rivelassero poteri insospettati dopo un trauma, oppure per spirito di rivalsa, e in questo caso c’erano entrambi gli elementi. Si alzò in piedi, senza pensare, e con aria imperturbabile espose alla donna i suoi intenti.
– Signora, io non so come spiegarglielo. Cercherò di essere chiaro nel miglior modo possibile. In suo figlio scorre una magia naturale e inespressa. Dei veri e propri poteri sopiti. So che non lo conosco praticamente per niente, ma per queste cose l’intuito non mi ha mai tradito, davvero mai.
Il sorriso della donna scomparve rapidamente, lasciando spazio ad un’espressione addolorata e spaventata. Quel vecchio era appena entrato in casa, e già si comportava in modo strano.
– Cosa vorrebbe dire, allora? Cosa gli vuole fare?- lo apostrofò acidamente, con la rabbia che solo una madre può provare, Jorge se lo aspettava, e corse rapido ai ripari, alzando le mani a schermo.
– Niente di particolare, per ora. Vorrei osservare le potenzialità del ragazzo per una settimana e…
– Non mi racconti storie!- lo interruppe la donna con uno scatto. – Lo so come siete, voi stregoni! A me non la da a bere!
“Intuitiva”, pensò Jorge. Era inutile tergiversare, dato che era stato messo allo scoperto. Tanto valeva rivelare tutto.
– Se Noctulis si dimostrasse abile, madama Layla, vorrei portarlo con me e addestrarlo presso la mia torre.
La donna deglutì un amaro boccone, a questa notizia. Squadrò il vecchio con gli occhi ormai prossimi alle lacrime, poi guardò il figlio fuori dalla finestra, intento a provare alcuni colpi con un vecchio bastone. Riportò lo sguardo su Jorge, e lo interrogò con voce rotta.
– Lei mi porterebbe via il mio unico figlio? L’unica persona che ho al mondo?
Jorge rimase immobile. Adesso era lui a non mostrare alcuna reazione. Aveva preso una decisione, e avrebbe usato ogni mezzo per portarla a termine. Anche se questo fosse dovuto costare il cuore di una madre.
– Sarà lui a decidere, signora. È per il suo futuro.
La donna ebbe un impeto di sdegno. Jorge pensò per un attimo che l’avrebbe colpito, poi la vide stringere tremante lo straccio da cucina, e portarlo al volto per tergere una lacrima furtiva.
– Lei è un mostro. E io, io sono una stupida.
* * *
La settimana seguente per il giovane Noctulis fu come un sogno. Il vecchio Jorge e la madre lo trattavano come un piccolo re, ricoprendolo di ogni tipo di attenzione e premura. La madre approfittava di ogni momento per ricoprirlo di coccole e tenerezze, lo viziava, gli concedeva libertà e impunità di cui prima non aveva mai goduto. Dolciumi, giocattoli, lettura fino a tardi, passeggiate nei boschi; quello che prima gli era proibito o limitato adesso gli era disponibile. Sentì vicinissimo il calore dell’amore materno, e ne fu cullato. D’altro canto, Jorge gli propose un nuovo mondo, qualcosa di cui mai prima aveva pensato essere capace. Il vecchio, ormai, alloggiava nella veranda di casa sua, non senza clamore del vicinato, ma in casa non sembrava curarsene nessuno. L’anziano stregone gli fece deporre la via della scherma, a lui così ostica, e gli mostrò le meraviglie della magia arcana. Un’arte con cui poteva manipolare il mondo a propria immagine, modificando le sue leggi; era qualcosa di più congeniale, affascinante, ed in qualche verso gli risultava anche più semplice. Per la prima volta si sentì davvero speciale e capace in qualcosa. Non riusciva ancora a padroneggiare alcun sortilegio, ma avvertì qualcosa che scorreva in lui con forza, che lo supportava e lo alimentava. Qualcosa di suo e basta.
Impegnato in tutti gli esercizi di magia che lo coinvolgevano, non si accorgeva della lotta sottile e subdola tra Jorge e sua madre. Non si accorse di come cercavano di comprarlo, di attirarlo a sè con ogni mezzo, di corromperlo per fare in modo che alla fine della settimana la scelta di Noctulis cadesse su di sè. Non si rese conto che la persona che più amava e quella che più ammirava si stavano giocando il possesso della sua anima e del suo cuore.
* * *
La proposta di Jorge colse Noctulis alla sprovvista. Non sapeva come reagire a tale idea, e si trovò a balbettare in modo incoerente.
– Io… venire a stare… da te?
L’anziano annuì, con un debole sorriso. Sapeva che non stava giocando in modo corretto, ma non lo voleva dare a vedere a quel ragazzo così sveglio.
– Esatto. Ti insegnerò tutto quello che so, e diverrai prima mio apprendista, finché un giorno non mi supererai. Ci vorranno anni, neanche io so quanti, ma ne varrà la pena, te l’assicuro.
La visione del suo futuro lo travolse prepotentemente, mentre le lusinghe gli accarezzavano il cuore. Aveva una strada da seguire, finalmente, e l’avrebbe percorsa sino in fondo. Eppure, qualcosa lo tratteneva.
– Mamma non lo sa, vero?
Jorge scosse il capo, addolorato. Nella luce morente del tramonto, alzò gli occhi scuri verso la casa, da cui proveniva un odore celestiale di zuppa. Il canto degli uccelli era il lamento funebre della giornata, come se il mondo stesso presagisse quello che stava per succedere. Noctulis, in silenzio, si incamminò verso casa, mentre l’anziano mentore lo attendeva fuori nel piazzale, già con le valigie pronte. Il ragazzo scomparve nel buio dell’ingresso, rivolgendo indietro uno sguardo adulto, di chi era consapevole di cosa stava per fare. “Sciocco ragazzo,” rimuginò Jorge, “non sai quanto ti farà male”.
Ci furono un paio di minuti di silenzio, in cui il vecchio stregone si trovò di fronte vecchi nemici. Il senso di colpa di chi strappava un figlio alla madre, la rabbia per la troppa ambizione, per il dolore che stava procurando a due persone per un suo personale capriccio, o per uno stupido sogno, chissà. Se in Noctulis avesse visto una possibilità di riscatto, un allievo promettente o un figlio mancato non lo sapeva ancora. Urla femminili rotte dal pianto lo strapparono dai suoi pensieri, seguite rapide da rumore di stoviglie infrante, improperi e minacce. passò poco tempo, prima che le urla fossero sostituite da un pianto a dirotto, singhiozzi incontrollabili, suppliche lamentose che cadevano nel silenzio. Noctulis riapparve sulla porta, lo sguardo fisso di fronte a sè, un sacco di iuta gonfio sulla spalla. Avanzava a lunghi passi, mettendo più strada possibile tra sè e la sua casa. Quando gli fu vicino, Jorge notò che l’espressione dura era tradita da occhi rossi e gonfi, con lacrime ancora intrappolate tra le ciglia. Erano gli occhi di quel ragazzo, ogni volta, a rivelare la verità su di lui, indipendentemente dal suo corpo o dalle sue parole. Parlò con tono piatto e atono, distante. Qualcosa gli attanagliava il cuore, ma non lo voleva rivelare.
– Potrò tornare a trovarla, ogni tanto, vero?
Jorge annuì non troppo convinto. Non voleva dire al ragazzo un’altra pietosa bugia, ma forse la menzogna in questo momento era la cosa migliore per un dodicenne. Gli cinse le spalle con un braccio, con affetto sincero, ma Noctulis si allontanò bruscamente, senza neanche guardarlo. Il vecchio si passò una mano tra i capelli candidi, sospirando per il grossolano errore che aveva fatto e per la disperazione che aveva inflitto sia a Noctulis che a sua madre. Inspirò profondamente, e con voce impostata e autoritaria diede i primi comandi al neofita.
– In marcia, discepolo Noctulis Xandauter. C’è molta strada, fino alla Costa del Sangue.
Il ragazzo non alzò nemmeno gli occhi dall’orizzonte. Sembrava perso nei suoi pensieri, concentrato allo spasmo.
– Sì, maestro Jorge Desmortes.
Il viaggio iniziò, e le Foreste del Sole inghiottirono rapidamente i due viandanti. La pace del villaggio, adesso, era rotta solo dalla voce straziante di una donna, che cantava una triste ninna nanna ad un mondo avviato ormai verso la buia notte.
oooooooooohhhh…. ed è solo l’inizio… ma mi dici per favore perché gli hai dato 12 anni in più? non sarà stato l’anno 2987, questo…?
Sono un tonto… ma tonto tonto tonto… cambio subito…
Che cabròn… ma che mi telefoni a fare… rinko…
Però è bello, bello, bello…
Avessi un po’ ti tempo, cazzarola, ne ho duemila da scrivere, pur io, anche sulla coppia più bella del mondo…