Il momento era giunto.
Il momento della vendetta.
L’uomo lo sentiva, come le galline dell’aia e le pecore nelle stalle avvertono l’imminente arrivo di un terremoto: un fremito sulla pelle, un brivido lungo la spina dorsale. Lunghe lune di cupo dolore e disperazione, di rinunce e di sacrifici, e finalmente aveva la sua occasione.
Avanzò cauto tra la boscaglia. L’arma pulsava nella sua mano. L’elsa, di semplice metallo, era stranamente tiepida al tocco, pareva pulsare come possedesse un proprio cuore, o fosse in qualche modo legata al suo. L’uomo non era convinto di possederlo ancora, un cuore: si era lacerato come quello di Leannah, quando il coltello aveva infierito sulle sue morbide carni, ancora e ancora. Chissà se l’avevano violata prima di ucciderla, trattenendola con le catene con cui poi lui l’aveva trovata appesa alla trave dell’ingresso, o se invece si erano divertiti con il suo corpo immobile ma ancora caldo.
Il pensiero gli fece ribollire il sangue nelle vene e un velo rosso gli calò davanti agli occhi.
Uccidi! Uccidili tutti, quei bastardi!
Attese qualche attimo per calmarsi, per riconquistare il controllo di sé, poi riprese a muoversi. Lento, silenzioso, gli occhi fissi sulla luce del falò nella piccola radura davanti a lui. Ormai mancavano pochi passi.
I bastardi non si erano preoccupati di nascondere la loro presenza. Si sapeva che le Masnade in quel periodo erano occupate altrove, al Vico di Nebin, e si sentivano tranquilli. Sedevano intorno al fuoco, sghignazzando e bevendo birra che con ogni probabilità veniva dalla sua vecchia fattoria, o dalla fattoria di un altro pioniere sventurato al pari suo.
L’avrebbero pagata cara.
Infine il suo stivale pestò un rametto secco. Il rumore del legno spezzato riecheggiò al pari di un colpo di spingarda nel bosco notturno.
I tre uomini balzarono in piedi. Con le loro rozze armature in cuoio, le spade scheggiate da molte scorribande, i capelli sporchi e i vestiti strappati dai rovi, era evidente che appartenevano a qualche piccola cricca locale, che si dedicava a depredare le fattorie più isolate in mancanza di uomini e mezzi per attaccare i ben difesi Vichi. Ma non c’era dubbio che fossero loro i colpevoli: li aveva pedinati fin da quando erano usciti dalla bottega del rigattiere, dopo aver cercato di vendere la fede di sua moglie.
La pagheranno! La pagheranno cara!
– Chi c’è? – gridò un brigante – Fatti vedere!
L’uomo abbandonò ogni precauzione ed emerse dalla boscaglia, entrando a passo lento nel cerchio di luce del falò.
– Chi cazzo sei?
– Mi chiamo Vik – rispose l’uomo, fissandoli con aperto odio – E sono il marito della donna che avete ucciso tre lune orsono.
Vide la preoccupazione scivolare via dai volti barbuti dei briganti. Temevano un agguato o una rappresaglia, e invece si trovavano davanti un uomo solo, e per di più armato di un semplice pugnale.
– Quale? – ribattè il brigante, suscitando una risata da parte dei compagni – Dammi qualche dritta, amico, ce ne sono state tante, comincio a confonderle…
– Non sono tuo amico – la voce di Vik vibrava di rabbia – E sono venuto qui per vendicarla!
Il brigante sghignazzò più forte. – Tu? Un bifolco qualunque? – si voltò verso i compagni – Ragazzi, sto tremando di paura!
– Fai bene ad averne – continuò Vik, serio. Mortalmente serio. – Chi è stato? Chi di voi cani l’ha uccisa?
– Senti, bifolco, perché non metti via quel pugnale, prima di tagliarti da solo, e non torni a zappare la terra da dove sei venuto? Si vede lontano un miglio che sai usare solo roncole e forconi. Quindi levati dai piedi, e ringrazia che sono di buon umore, e di non aver niente addosso che valga la pena strappare dal tuo cadavere.
Vik non si mosse.
– Mi hai sentito? Smamma, o saranno guai!
Per tutta risposta, Vik lo caricò, in gola il ringhio di un animale ferito che non ha altra scelta che affrontare i cacciatori invece di fuggire. Il brigante evitò il suo goffo fendente con un balzo di lato.
– Wow, il bifolco fa sul serio!
– Dai, Boris, fagliela vedere!
– Sì, facci divertire un po’!
Incitato dai suoi compagni, per deriderlo, il brigante cominciò a saltellare intorno al villico, che agitava il pugnale con foga ma senza alcuna perizia.
– Forza, sono qua! Che aspetti? Colpiscimi!
E, al quinto tentativo, Vik lo colpì davvero. La lama lacerò la manica della casacca del brigante, dimostrandosi estremamente affilata contro ogni aspettativa. Una goccia di sangue affiorò sulla pelle, niente più di un piccolo taglio di striscio. Gli altri sghignazzarono, aspettandosi che il compagno si stancasse di quel gioco e si decidesse a sgozzare quel bifolco insolente una volta per tutte.
La risata morì sulle loro labbra.
Il brigante crollò in ginocchio, urlando. Si stringeva spasmodicamente il braccio che, sotto i loro occhi attoniti, cominciò ad annerirsi e ad avvizzire.
Vik, ansimando per lo sforzo, si voltò verso di loro. Non stavano più ridendo.
Uccidili! Uccidili tutti!
– Il prossimo? – domandò.
I briganti impugnarono le armi e lo attaccarono insieme, questa volta facendo sul serio. Vik sapeva di non essere in grado di tener loro testa.
Ma il pugnale lo era.
Il suo braccio si mosse, come animato da una volontà propria. Parò un fendente, si insinuò sotto la guardia dell’avversario e si conficcò nel suo petto, tra le cinghie del pettorale di cuoio. E insieme al fiotto di sangue, vennero le immagini.
Leannah che si dibatteva selvaggiamente, mentre le catene le mordevano i polsi. Le unghie sporche del sangue dei suoi assalitori. Gridava il suo nome.
Vik strappò il pugnale dalla ferita mortale e il lampo si spense. Si mosse appena in tempo per evitare l’affondo del secondo brigante, che gli sfiorò il fianco. La lama sibilò nel suo pugno, saettò verso la gola.
Il brigante la stava tenendo per la gola. La soffocava. Leannah provò a sputargli in faccia, ma ricevette uno schiaffo. Il labbro le sanguinava. I polsi le sanguinavano, il metallo delle catene le martoriava la carne e beveva il suo sangue.
Vik ansimò ed era di nuovo là, in mezzo alla radura. I due briganti erano riversi al suolo, mentre il primo era ancora in ginocchio, il braccio lungo il fianco.
– Non riesco a muovermi – boccheggiava a fior di labbra – Non riesco a muovermi…
– Neanche lei poteva muoversi, per colpa delle vostre catene – ringhiò Vik, barcollando verso di lui – Catene con cui ho fatto forgiare quest’arma. Loro ricordano. Loro sanno. E adesso anch’io so quanto l’avete fatta soffrire, bastardi…
Con un grido feroce, stringendo l’elsa con entrambe le mani, conficcò il pugnale nel cuore del brigante. E la vide di nuovo.
Bellissima, mentre lottava contro i suoi aguzzini. Mentre affrontava la morte.
Per un breve attimo, gli parve che fosse di nuovo lì, accanto a lui.
E poi era finita. Davanti a lui, soltanto un altro cadavere, e di Leannah nient’altro che un ricordo.
Si lasciò scivolare a terra, svuotato. Il pugnale gli scivolò tra le mani, cadde tra le foglie secche con un tonfo sordo.
Aveva svolto il suo compito.
– Accetto il tuo pagamento, e forgerò l’arma che mi chiedi – gli aveva detto l’Altomastro, accogliendolo nella sua dimora di Ramana.
– Ne ho bisogno per vendicare mia moglie – aveva affermato Vik, torcendosi le mani, angosciato e tremante – Non sono un guerriero, sono solo un umile contadino, e tutto ciò che possiedo ve lo offro… ma in cambio voglio avere la forza di uccidere coloro che mi hanno portata via la mia Leannah!
Era rimasto in piedi, sulla soglia della grande fucina, invasa dai fumi del ferro che veniva temprato e dei preparati alchemici, dal clangore di martelli che si accaniscono sull’incudine e dal tintinnio di mille provette e fiale. Aveva osservato da lontano la forgiatura del pugnale, lo sciogliersi del malvagio metallo che aveva costituito le catene in cui era stato imprigionato il corpo di sua moglie, per tramutarsi in un nuovo oggetto intriso del potere mistico degli Artefici.
Un’arma.
Un’arma che serbava il ricordo di quanto era avvenuto, ed era pronta a donarlo anche a lui, una volta saziata la sua sete di sangue.
Un dono, o una maledizione?
– Una volta ottenuto il tuo scopo, gettala via – gli aveva intimato l’Altomastro, al momento di congedarlo.
– Perché? – aveva chiesto Vik.
– Perché ti farebbe solo del male.
Era vero, considerò l’uomo, inginocchiato nella radura in compagnia dei cadaveri degli assassini di sua moglie. Gli aveva fatto così male, rivedere gli ultimi istanti di Leannah. Eppure, in qualche modo, erano una perversa consolazione, un modo per trattenerla sempre con sé.
Ne voleva ancora.
Ne aveva bisogno.
La lama del pugnale riluceva al chiarore del falò che cominciava a languire.
– Lo getterò via in un altro momento – disse Vik, raccogliendolo e assicurandolo alla cintura.
Pronunciò le medesime parole dopo un’altra uccisione, e dopo un’altra ancora. Non importava che fossero briganti di qualche cricca, arcigni sciamani, bislacchi eremiti o addirittura qualche povero diavolo di passaggio, che aveva avuto la sfortuna di attraversare la sua strada nel momento sbagliato. Ogni volta, quando affondava l’arma nel colpo letale, rivedeva Leannah nei suoi ultimi istanti prima di morire, e così gli sembrava che fosse ancora viva. Ogni volta piangeva, disperato, odiandosi per ciò che era diventato, il dolore che gli squarciava il petto, ma era sempre meglio il dolore che perderla per sempre. E come chi si stuzzica una ferita per non farla rimarginare, nel timore che non ne rimanga nemmeno la cicatrice, presto o tardi tornava a cercare un’altra vittima, per poter gustare un fugace istante in compagnia di sua moglie.
E fu in quest’occasione, due lune dopo, che lo incontrò l’Immacolato.