Mentre la creatura sortiva fuori dalla spelonca, già fiutava gli odori dell’umida terra e delle foglie che marcivano al suolo. Al medesimo tempo il suo udito percepiva il frenetico battito d’ogni animale notturno, così come il lento pulsare delle bestie in letargo.
Ogni sensazione gli giungeva centuplicata e persino ciò che l’uomo più vigile non avrebbe saputo captare, affollava i suoi pensieri come una nitida sinfonia.
Mosse qualche passo tra le fronde e poi la sua voce, simile a un sussurro, rese un singolare omaggio:
“Vespro, oblio dillo mondo,
Sonno dei sensi et ragione,
Nello ventre tuo sprofondo,
Senza speme né remissione.
Quale erede et amante,
Ti son figlio ‘sì come sposo,
In esto destino errante,
In esto fato periglioso.
Dal buio fui generato,
Giacché la luce mi ripudiò,
In tenebra ho dimorato,
Son morto et mai morirò.
Incubi et ombre, compari,
Grate presenze, la mia condanna,
Ricordi dolci et amari,
Chi troppo cerca, tosto si danna.
Tomba o giaciglio, dirlo non so,
Sonno o morte, mio dilemma,
Di sangue vivo ma sangue non ho,
Dilla notte sono la gemma.”
La creatura tornò a muoversi nel bosco e in breve fu vento, vento nelle tenebre.