“Ary! Dai Ary, muoviti o faremo tardi!”
Vensen, che la chiamava a gran voce, la ridestò dal torpore.
Il canto delle rondini si acquietò e non appena aprì gli occhi, la luce del sole filtrò attraverso le fronde dell’albero di gelso e le sue ciglia, così li chiuse di nuovo.
“Tardi?” sospirò con una smorfia “Tardi per cosa?” alzò le braccia al cielo e si stiracchiò, ancora sdraiata sull’erba. I papaveri le accarezzavano il volto mentre ondeggiavano, quasi ballassero un lento con il vento primaverile.
“Le guardie imperiali, non ti ricordi? Avevano detto che sarebbero tornati a sole alto!” le parole uscivano tremanti dalle sue labbra, piene di terrore “Se non ci trovano a casa chissà che potrebbero fare! Ti prego, Ary…”
La ragazza si alzò e il fratello potè tirare un sospiro di sollievo.
“Però” fece lei imperativa e intercettando lo sguardo interdetto del ragazzo, per poi sorridere con fare furbetto “facciamo a chi arriva prima!”
“Eh?! No aspetta!”
Troppo tardi. Seppur la sua statura non fosse lodevole, era già scattata come un capriolo tra i campi di foraggio e papaveri. I capelli, biondi come spuma delle onde di quel mare dorato, danzavano nel vento. Sentiva le spighe del loglio batterle sulle gambe nude, mentre il lungo abito bianco e rosso svolazzava, appigliandosi ovunque nel suo cammino.
I piedi nudi affondavano nell’erba fresca ad ogni balzo e, mentre correva con le braccia spiegate, le pareva quasi di poter volare.
Era sempre stata di tutta la famiglia, quella più ingenua, giocherellona e decisamente più abile nella corsa. Neppure suo fratello Vensen riusciva a starle dietro, nonostante le sue gambe lunghe.
“Maledetta… mocciosa…” fece lui con il fiato corto, piegato su sè stesso, e le mani sulle ginocchia.
“Guarda che sei stato tu a dire che dovevamo sbrigarci.”
Si era dovuta fermare ad aspettarlo, anche se erano quasi arrivati. Non c’era verso, lui era bravo solo a fare i conti e a tenere i registri di famiglia, si stancava davvero subito.
Lui la fissò accusatorio “Prendi sempre tutto alla lettera, tu. Se camminavamo arrivavamo comunque in tempo!”
Mentre era tutto impegnato a tirarsi su i neri capelli impiastricciati di sudore, lei sospirò “Non ti fa male fare un po’ di movimento”
“Sai benissimo che non reggo gli sforzi fisici!”
“Ma avremmo fatto si e no dodici pertiche!”
“Non sai contare, erano almeno il doppio!” la guardò serio e poi la spinse ridendo. Lei lo spinse di rimando e così continuarono fino a che non furono vicino a casa.
Il sole caldo e il vento fresco baciavano le Piane, dove i fiori sbocciavano rigogliosi e gli alberi da frutta regalavano succose delizie. I boschi offrivano bacche e funghi in abbondanza, cacciagione e legna da ardere. La gente era cordiale, festaiola, merito forse del retaggio di nomadi. I borghi che ne erano sorti, avevano preso il posto dei precedenti insediamenti, facendo unire ancor di più la popolazione. Insomma, era un posto meraviglioso dove vivere così come, soprattutto per lei, lo era Pian dei Gelsi.
“ASTRA ARIADNE!”
La giovane s’impietrì all’udir il proprio nome. Era stato pronunciato in maniera così imperativa da far raggelare il sangue.
Suo padre, in pompa magna, sostava sull’uscio di casa con i pugni sui fianchi e l’aria tutt’altro che allegra. Quando la chiamava col nome completo, poteva voler dire due cose: gli serviva che lei facesse qualcosa d’importante, qualcosa che solo lei poteva svolgere, oppure che era davvero inalberato.
La risposta la sapeva già.
L’uomo era identico a Vensen, sebbene fosse molto più grande e, al contrario del figlio, portava i capelli lunghi, raccolti in un codo.
Astra si avvicinò a testa bassa e le spalle irrigidite, mentre li occhi color ambra dell’uomo la squadravano severi.
“Ti ho detto molte volte di non allontanarti così tanto da casa.” proferì senza distogliere lo sguardo dalla figlia.
“Ma padre” protestò “sono rimasta comunque sempre a Pian dei Gelsi!” facendo gli occhi grandi da cerbiatto. Da un occhio esterno alla fine non aveva fatto niente di male, se non andare a riposare nel luogo che amava.
Dagli eventi degli ultimi anni invece, la gente delle Piane aveva iniziato a tenere la guardia alta. L’impero aveva preso a sedare le sacche ribelli in giro per il regno e uno dei luoghi più colpiti era quello in cui vivevano.
Su quel posto meraviglioso era stato stretto un ineluttabile pugno di ferro. La prosperità e la ricchezza di quel luogo era completamente in mano imperiale. Ciò che si riusciva a produrre o a comprare veniva prelevato e razionato, ogni risorsa passava dal giudizio delle truppe che si occupavano di sorvegliare quei luoghi.
Fu indetto un coprifuoco e guai a chi rimaneva fuori oltre l’orario stabilito. Certe volte, le truppe imperiali si divertivano a spostare l’ora del rincasare per mettere alla prova la fedeltà di quei popoli ridotti quasi alla fame. Se un giorno erano particolarmente su di giri, non esitavano a sfogare i loro istinti su chiunque, con sevizie di ogni tipo.
Non venisse loro voglia di nascondere o aiutare in qualsiasi modo dei ribelli, che la morte sarebbe stata l’unica liberazione a confronto del destino che gli avrebbero riservato.
“Niente ‘ma’! Dovresti comportarti più responsabilmente, ormai hai 15 anni!” seppur severa, la voce dell’uomo tremava. In essa vi era un miscuglio di sentimenti tra la paura, la rabbia, il dispiacere che trapelava incertezza.
“Suvvia…” una voce soave interruppe la diatriba “Vensen è tornato, salvando nostra figlia dalle grinfie del grande albero di Gelso, e tu la rimproveri?” con la solita ironia.
Una donna dai lunghissimi capelli biondi, con gli occhi smelado e il sorriso dolcissimo, comparve dietro l’uomo che sbuffò scocciato “Iuno, quella feccia arriverà per l’ispezione e avessero trovato nostra figlia in giro da sola…”
“… ma così non è stato, Elia.” lo interruppe lei con flemma. Iuno cercava sempre di vedere il buono in ogni cosa o situazione. Con i suoi modi calmi e gentili era capace di tranquillizzare e rassicurare persino il marito. Lo baciò sulla guancia, e si rivolse alla figlia con fare giocoso “Adesso andiamo a sistemare questa piccola birbantella con i capelli tutti scompigliati!” prendendola per mano e conducendola dentro casa.
Elia sospirò, ritrovando la tranquillità e facendo entrare Vensen.
Chissà perchè tutto d’un tratto le era venuto in mente proprio quell’episodio.
Mentre camminava dietro al proprio gruppo della Mansada dello Spiantato, aveva ricordato qualcosa che le provocò una tremenda nostalgia.
Sua madre, suo padre e suo fratello.
Rimase imbambolata a fissare il vuoto davanti a sè, mentre ogni passo nelle sue orecchie rimbombava incessante, sempre più forte, sempre più prepotente, finché non si perse di nuovo.
Una musica leggera risuonava nella sua testa, lontana come un memento. Alzò lo sguardo verso Sigrun più avanti. Ella le dava le spalle, non si curava di lei, era tranquilla e di buon umore. Era lei a canticchiare?
Astra sorrise e in quello stesso istante vide accanto alla paladina un uomo molto vecchio, con i capelli grigi, gli occhi stanchi ma un sorriso benevolo come un raggio di sole dopo la tempesta.
Il suo bisnonno si era materializzato lì, frutto dei suoi pensieri, dei suoi vaneggiamenti. La sua figura si faceva sempre più vicina mentre camminava finchè, all’improvviso egli allungò la mano verso di lei.
“La mia nipotina mi concederebbe l’onore di questo ballo?” le chiese il suo avo, Valerian, con quel soave accento valdemarita. Nonostante fosse davvero molto in là con gli anni, quasi prossimo al tramonto della sua esistenza, riusciva ancora a stare in piedi e a concedersi un lento ondeggiare sopra una tenue musica da festa.
Astra era radiosa, con i capelli raccolti in un chignon adornato di fiori, da cui lunghe spighe di capelli dorati scendevano per posarsi sulle spalle. Aveva un abito bianco semplice, svolazzante e leggero, decorato con candidi ricami sul cinturone che le cingeva la vita.
“Siete sicuro, nonno? Non vi fa male la schiena?” fece di rimando prendendogli la mano.
“La tua sola vista mi fa passare qualsiasi dolore, ma petit fleur.”
“Astra! Non rimanere indietro!”
Un altro ricordo…
La voce di Balthazar la riportò alla realtà. Il suo sguardo intercettò quello del cavaliere, rendendosi conto che era stata distanziata di molto. Per un attimo ebbe le vertigini nel guardare quello spazio vuoto tra loro e nei suoi occhi si materializzò l’immagine di un lungo tunnel di pietra. Li strinse scuotendo la testa. Si rese conto solo in quel momento che gli occhi avevano preso a lacrimargli.
“M-mi dispiace! Arrivo subito!”
Quando li riaprì tutto era tornato alla normalità. Si asciugò con il bordo della manica e affrettò il passo per ricongiungersi al resto del gruppo. Nelle sue orecchie la musica si era finalmente dissolta, lasciando il posto al fruscio dei passi sull’erba, al canto incessante degli uccellini.
Ripensandoci, effettivamente, erano molti anni che nessuno la chiamava più Ary.
“Non vedo l’ora di riposare un po’ i piedi” Estrella rallentò fino ad affiancarla, guardandola con un sorriso furbo “Dovrebbe esserci un bivacco da queste parti, così ci possiamo sbevazzare su quando arriviamo! Non c’è bisogno che ti blocchi in mezzo di strada come un cavallo che ha visto una brutta pavimentazione!”
Astra si girò alzando un sopracciglio, come niente fosse “Però, le conosci bene le strade!”
“Ehi! Mi stai forse dando della peripatetica?!” ad Estrella si drizzarono tutti i capelli, indispettita, ma Astra la riprese con fare amorevole e giocoso “Non darei mai della peripatetica ad Estrella Sancha Lupe de Castamara!“
“Ah, ecco. Vorrei vedere!” sbuffò, sotto sotto divertita.
Era piacevole interloquire con lei, anche se aveva l’umore spesso ballerino, la tendenza a legarsi al dito tutti i torti subiti, anche i più banali, e l’innata capacità di essere sempre nei guai.
“Da dove vengo io le chiamiamo in modo diverso!” fece Filomena rallentando il passo e affiancando Astra dalla parte opposa
“Hanno sempre le dita appiccicose?” chiese Lucius da davanti alla fila, facendo sogghignare la bella ragazza del sud che prese la palla al balzo “In che senso?”
“Come si permettono?!” Estrella squittì nuovamente.
Astra, tirando un sospiro le mise una mano sulla spalla “Non ascoltarli, c’è un palese doppio senso…”
Estrella urlò un “Eh?!”
“Bambiniiiiii!” stridì Sigrun, vicino Balthazar “Suvvìa, basta perdersi in sconcezze!”
“Tranquilla Sigrun, preparerò loro una bella tisana calmante appena arriviamo!” sorrise Anthares in modo inquietante e tutti la guardarono tra l’intimoriti e il divertiti.
“In che senso?” fece Klim in fotocopia di Filomena.
“Nel senso… ragazzi! Abbiamo perso Aron!” si allarmò Ranjan.
Hakim si girò e indicò una direzione “E’ vicino quel cespuglio!”
Allan lo fissò “Intendi sotto quell’albero?” provocando la reazione dell’altro che gridò “Oddio lo ucciderà!”
Skraag sfoderò subito l’arma “Ci penso io” e John caricò il fucile “Nel dubbio…”
“SPIANTATO!!!” gridò Balthazar dopo che Padre Lince ebbe sospirato profondamente chiedendo aiuto agli astri.
Magicamente tornò la calma.
“Eh, però che barba Balthy…” borbottò Cyra per sdrammatizzare.
Astra soffocò una risata sul nascere. Era davvero tanto tempo che non si sentiva a casa come adesso. Qualcuno avrebbe detto che la loro era una famiglia disfuzionale, ma era una famiglia meravigliosa. Questa volta non sarebbe scappata, li avrebbe protetti tutti quanti.
Estrella la fissò con l’aria scocciata “Prima piangi ora ridi?! Perché non fai ridere anche me?”
“Va bene” fece Astra prendendo a braccetto l’altra che, allergica al tocco altrui, inorridì “Conosco una barzelletta divertentissima!”