Fuggiamo – Non possiamo fuggire

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Fuggiamo…

Nella nebbia, in un dedalo di pallidi miasmi… noi fuggiamo.

L’alieno reame in cui siamo relegati non differisce troppo da quello che ci ha dato i natali. Anche se le palpebre sono dischiuse, non siamo in grado di vedere. Cos’è ciò che i cinque sensi afferrano se non melliflua illusione? Cos’è l’esperienza mortale se non un’ebbrezza traditrice?

Nelle contorte radici terrene, nelle radici del mondo… noi fuggiamo.

Siamo come ciechi che marciano su una scoscesa mulattiera, come funamboli che incedono sul filo d’una lama. Precario è l’equilibrio che ci sostiene, eterno il vuoto che ci attende. A beneficio di chi è offerto il miserando spettacolo delle nostre effimere esistenze? Siamo forse il diletto dei crudeli numi che stanno assisi nel circo intitolato all’umano fato?

Giù nei Pozzi senza uscita. Sul fondo dell’abisso che non conosce lume… noi fuggiamo.

Del resto, la via della vita non è un itinerario che conduce presso una meta agognata, bensì una vana fuga da colei che con algido respiro ci fiata alle spalle. A chi affideremo i baluardi che abbiamo allestito onde sottrarci all’ineluttabile destino? Cosa resterà delle astruse conoscenze e della sottile saggezza la cui trama ha ordito quello che un dì diverrà il nostro sudario?

Fino all’ultimo alito. Finché ogni speme non è estinta… noi fuggiamo.

Non possiamo fuggire…

Mentre quelle parole, prive di senso, le ronzavano nella mente come api moleste, la giovane donna alzò la fronte, staccandosi dall’abbraccio della fredda roccia.

Quanto tempo era trascorso? Un’ora, forse di più. I suoi occhi si ritrovarono a fissare la scura macchia del sangue, del suo stesso sangue, che andava seccandosi al pigro sole autunnale.

Il volo dalla cima della rupe era durato molto più di quello che credeva. L’aria attorno a lei si era cristallizzata come i granelli di sabbia inghiottiti dal collo della clessidra. Il tonfo sulla pietra non era stato forte bensì sordo come la caduta d’un frutto troppo maturo. Aveva sentito le ossa frantumarsi, i fluidi vitali abbandonare la carne, poi il buio… il buio che anelava.

Fino a un anno prima era una rispettata accolita presso la rinomata Camarilla degli Esoteri. Gli eccentrici bifolchi del Vico di Nebin comparivano spesso sulla soglia, chiedendole di predire il futuro rovistando tra le budella di uno sfortunato pollastro, di bandire dal corpo una brutta infezione o, più raramente, di attingere agli occulti poteri di Dagon allo scopo d’evitare le pene del lutto. I doni che costoro recavano erano più che sufficienti ad assicurare una vita dignitosa all’amato marito e alla diletta pargola, il cui instancabile pianto riempiva le sale della dimora.

Poi quei tre erano scomparsi nel nulla e con loro se ne era andato il mirabile portento dei Pozzi. Se prima di allora nella Borgata si erano levate molteplici voci a lodare la sua benemerita opera, ora esse tacevano e le malelingue ne avevano rapidamente preso il posto. Dapprima dissero che era una ciarlatana, poi che si era arricchita a spese degli inetti e, infine, che nascondeva sotto le assi del pavimento una giara colma d’oro mentre i suoi vicini crepavano di fame.

Vennero al tramonto ma lei era ancora presso il colle, intenta ad acchiappare la vecchia capra che aveva deciso di fuggire nella macchia. Quando rincasò, le fondamenta di terra naturale erano completamente scoperte e tra i mucchi d’assi divelte giacevano il marito e la figlia, entrambi immobili, con la faccia premuta in una pozza di viscida fanghiglia. Non avevano trovato l’oro ma, in compenso, si erano presi qualsiasi cosa potesse avere un minimo valore. Si erano presi tutto.

A quanto pare, le voci che pochi giorni fa venivano da Villamasca rispondevano al vero. La morte era tornata nelle Caselle e aveva ripreso a mietere il suo raccolto, proprio lì tra quelle mura.

Nel silenzio della Borgata, seguita solo dagli sguardi silenti che la spiavano da dietro le imposte, aveva caricato i corpi su un carretto e li aveva portati sulla rupe dove c’era una vecchia carbonaia. Li aveva guardati bruciare mentre le prime foglie, rosse come il sangue, iniziavano a cadere sotto le impietose stoccate del vento.

Quando le ultime braci si erano estinte, si era voltata, aveva scrutato l’orizzonte della Scacchiera dalla sommità dello strapiombo. Quindi, aveva compiuto il fatidico passo.

Niente da fare. Non le era stato concesso di condividere l’infausta sorte che era toccata ai suoi. A chi non vuole tocca di sorbire l’amaro calice sì come chi ne beve avidamente è immune al suo veleno.

Era forse la Novella Signora che, dopo avere vibrato i primi fendenti per provare la sua falce, aveva deciso di sostare onde dargli un passata di cote? Erano forse i poteri che l’avevano abbandonata nel momento del bisogno ad averla salvata quando era rimasto ben poco da salvare? Aveva senso proseguire il cammino quando il terreno stesso le era franato sotto i piedi? Cosa c’era in serbo per lei oltre le pagine del libro che credeva d’avere chiuso?

Dolore, rabbia, vendetta, disperazione, rovina, riscatto… tutte quelle parole affollavano la sua mente mentre si rimetteva in piedi e asciugava il rivolo rosso che le sporcava il labbro.

Non possiamo fuggire… quindi, restiamo.

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