– Salute a voi, messer Hakù… è da molto che non vi si vede da queste parti… Dovete scusare Gus, ieri sera deve aver mangiato qualcosa che gli ha fatto male… non è vero, Gus?
Dopo essersi preso una gomitata da Syddin, Gus intuì che forse era meglio sparire, invece di rimanersene lì a cercar di capire dove aveva sbagliato, e borbottò qualche parola di scusa, raccogliendo in tutta fretta alcuni pesanti libroni che portò via con sé come se non gli creassero nessun tipo di impiccio. Syddin sospirò, osservandolo correr via, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso il nuovo venuto.
Lo aveva visto tante volte: un uomo alto, robusto, abbigliato alla maniera degli stravaganti combattenti dell’Est, con una maschera di teschio appiccicata a nascondere gli occhi… Syddin era un tipo sveglio e gli ci voleva poco a imparare da ciò che gli accadeva intorno. Sapeva che i guerrieri come lui, i “Dragoni di Giada”, erano rimasti in pochi, che dovevano mettere l’onore davanti a qualsiasi altra cosa pena la morte, che avevano la testa più dura delle rocce di cui erano fatte le lontane Cime Guardiane, che alcuni di loro erano devoti al Semidio della Morte e che nella Biblioteca Mordiana c’era qualcuno che probabilmente odiava la loro stirpe sopra ogni altra cosa.
– Immagino stiate cercando dama Melisenda…
L’uomo rispose con un cenno del capo, parlando con voce bassa e calma. Se si era offeso dell’atteggiamento irrispettoso di Gus, pensò Syddin, non lo dava certo a vedere.
– Ai, giovane applendista, il tempo olmai è giunto. Devo sottlalle a voi l’aiuto plezioso di mia solella pel qualche giorno. Io e lei dobbiamo paltile immediatamente.
Syddin si schiarì la voce prima di continuare. Nonostante fosse stato scelto lui per risolvere le questioni spinose per via della sua parlantina sciolta, tutte le volte che c’erano di mezzo quei due gli pesavano enormemente le mascelle.
Ci aveva messo un po’ per scoprire tutti i dettagli, ma alla fine, dai e dai, era riuscito a capire cosa mai potessero avere avuto in comune, a parte la tristezza che li avvolgeva in ogni istante, un glaciale samurai dalla pelle chiara e dai lineamenti sicuramente non orientali e una brusca veggente dagli occhi a mandorla proveniente dai Deserti.
Un padre. Avevano in comune un padre. O, per meglio dire, il samurai si era preso il padre della veggente. E ovviamente lei odiava entrambi, ed entrambi lo sapevano bene.
Nonostante ciò, i due fratelli si proteggevano a vicenda, facevano ogni cosa insieme, ogni loro sforzo era diretto verso una causa e un pensiero comune, anche se spinto da motivazioni diverse. Perché sì, erano davvero diversissimi.
Hakù era il ritratto cristallino della calma. Probabilmente esistevano pochissime cose in tutto il cosmo di Whanel che potessero scatenare la sua ira. A volte era così chiuso nel suo mondo di leggi e onore da non aver coscienza o non riuscire proprio a comprendere i sentimenti di coloro che gli giravano intorno. Pacato, distaccato, decisamente gelido all’occorrenza, eppur stranamente affettuoso. Anzi, silenziosamente affettuoso verso l’unica persona che potesse chiamare “la sua famiglia”.
Melisenda, maggiore di lui di qualche anno, era ugualmente fredda, metodica e precisa quando c’era bisogno di rimanere calmi, e tuttavia estremamente sensibile, forse per via del dono della Veggenza che il dio della Conoscenza sembrava averle accordato. Ma in sé covava una collera tremenda che di tanto in tanto premeva per uscire in modo evidentemente insopportabile per i suoi nervi. Sempre più di frequente si lasciava andare a lunghi e accaniti soliloqui in una lingua che loro, gli apprendisti bibliotecari, non comprendevano, e le lunghe sedute di meditazione alle quali si sottoponeva spesso non le calmavano affatto i bollenti spiriti, e loro si prendevano delle sonore lavate di capo. Un lago calmo che nasconde terribili insidie e un vulcano pronto a esplodere in qualsiasi momento. Pericolosi entrambi.
Non si approvavano a vicenda in nessuna delle cose che facevano o che pensavano, e Syddin era davvero sicuro che dama Melisenda in fondo al cuore odiasse veramente il suo inamovibile fratello. Eppure aveva anche la sensazione che non avrebbero potuto vivere, nemmeno esistere l’uno senza l’altra. Si completavano e compensavano a vicenda, nel bene e nel male. E, a modo loro, forse si volevano bene oltre ogni misura.
– Ehm… vedete, messer Hakù… dama Melisenda è… insomma… si esercita.
Il samurai comprese immediatamente il senso delle parole dell’apprendista e aggrottò leggermente la fronte. Syddin non poteva accorgersene, data la presenza della pesante maschera sugli occhi, ma non ci voleva un genio per capire quanto Hakù disapprovasse l’allenamento della sorella.
Lui lo sapeva bene: un paio di volte gli era capitato di seguirla (non per spiare, questo no, passava di lì, e…) e l’aveva vista inginocchiarsi davanti al mare, recitando una breve orazione nella sua lingua, e poi levarsi i calzari, sfilarsi gli ampi pantaloni, posare gli occhiali sul mucchietto di vesti e adagiare su di essi il velo che non si toglieva mai dalla testa, in modo da proteggerli dalla sabbia che il vento spazzava via. L’aveva vista afferrare la katana forgiata da suo padre e rimanere immobile per alcuni istanti, in guardia davanti alle onde che si infrangevano sulla battigia…
…e poi improvvisamente si era ritrovato davanti una creatura indemoniata che esplodeva in un grido straziante di dolore e rabbia, e correva sul bagnasciuga a piedi nudi, gettando urla belluine, e andava avanti, avanti, finché l’acqua non le arrivava alle cosce e le onde non le minavano l’equilibrio, infrangendosi su di lei, che continuava a menar colpi con una violenza insospettabile per lo scricciolo di donna che era, seguitando a urlare come un ossesso, come se davanti avesse il suo peggior nemico e non volesse far altro che distruggerlo… Syddin non se ne intendeva bene di scherma, ma era sicuro che quell’esplosione non avesse come guida di base nessuna tecnica di combattimento. Sembrava assolutamente senza senso e fuori luogo in una persona razionale e pratica qual era dama Melisenda.
Lui aveva avuto modo di assistere alle lezioni che il samurai aveva dato alla sorella: sembrava che ora lei volesse fare tutto il contrario di quel che gli aveva insegnato il fratello. Per gli Dei, ci riusciva benissimo.
– Capisco… pensi che ne avlà ancola pel molto?
– Non credo, messer Hakù… di questi tempi è molto freddo e non si trattiene per più di un’ora, un’ora e mezzo… dovrebbe tornare a momenti…
– Se non ti dispiace, allola, vollei attendella qui.
– Preferite attendere nella stanza di vostra sorella? C’è un po’ di tè verde appena fatto, di là. Credo che vi stesse aspettando.
– Non le avevo detto nulla di quando salei allevato. Ma non mi stupisco.
Il samurai si avviò lentamente verso una porticina laterale sulla sinistra della sala. Syddin fece per scortarlo, ma l’uomo fece segno che poteva andare. Lo osservò scomparire oltre la porta, e qualche attimo dopo un paio di novizi del tempio di Sirio che lavoravano al restauro delle pergamene entrarono dalla stessa porta nella sala grande tenendo ben stretti i gioielli di famiglia.
– Non ci posso far nulla, è più forte di me…
– Davvero, davvero! Tutte le volte che lo vedo, mi sale un brivido…
Syddin li apostrofò a bassa voce.
– Ragazzi, basta, datevi un contegno. A parte il fatto che è un eroe del Regno e dobbiamo portargli rispetto, voi che servite il dio della Conoscenza non dovreste essere superiori a queste sciocchezze superstiziose?
I due novizi s’indignarono, lamentandosi.
– Superstizioni, queste? Ma che trelvenita sei?
Syddin si voltò, chiudendo laconicamente la questione.
– Sono nato a Ifhazhar, teste di rapa.
Ma povero Hakù…
Eh, oh, la scaramanzia è scaramanzia… :PPPP