Quando aprì gli occhi, il samurai impiegò diversi istanti a ricordare cosa gli fosse accaduto. Ma ciò che era rimasto impresso nella sua memoria non bastava ad aiutarlo a spiegare per quale motivo attorno a lui non vedesse niente che lasciasse pensare che alfine fosse morto. Poiché l’ultima cosa che ricordava era che la Morte stava per distendere il suo mantello su di lui… un mantello fatto di scintillante e opprimente luce solare, che beveva avidamente dal suo corpo straziato la preziosa linfa che lo teneva in vita e lo ricopriva di ustioni e bruciature che lentamente fiorivano sulla sua pelle, inesorabili e inarrestabili.
Si aspettava di non riaprire mai più gli occhi, una volta che li avesse richiusi, o per lo meno di riprendere una vaga coscienza di sé quando ormai si fosse trovato da qualche parte nella Spirale delle Anime, per poi perderla nuovamente poco dopo.
Ma lo spettacolo che si poneva dinanzi ai suoi occhi era tutto fuorché onirico o metafisico: anzi, era la sua sconcertante funzionalità che lo confondeva così tanto.
Si trattava indubbiamente di una specie di ambiente interno: benché fosse sicuro di essere ancora nel Deserto, né l’afa né la luce lo opprimevano, adesso. Attorno a lui vi era un’esplosione di tendaggi dai colori caldi e pastosi e alcuni bassi tavolini erano disseminati un po’ ovunque: su di essi erano disposte, in buon ordine, boccette e ampolle di ogni foggia e dimensione. L’aria, che aveva un che di fresco, era profumata e gradevole.
Gli ci volle ancora un po’ di tempo per rendersi conto che non indossava più né l’armatura né il suo kimono: addosso aveva un semplice caffettano color sabbia, mentre le gambe e metà del busto erano protette anche da un pallido lenzuolo di seta grezza. Improvvisamente gli venne in mente che qualcos’altro, di ben più importante, mancava all’appello. Il sangue si raggelò dentro le sue vene al pensiero: scattò immediatamente in avanti, tentando di alzarsi. Tuttavia, il suo corpo si contrasse per qualche attimo, ma quasi subito ripiombò inerte sul giaciglio. Il samurai represse una smorfia di dolore: quello sforzo gli era costato caro, visto che adesso gli sembrava che ogni centimetro della sua pelle fosse esploso in un grido disperato.
Fu allora che si accorse di non essere solo.
– No, no, Tahira ha detto che non puoi ancora alzarti. Rimani disteso, o le piaghe si riapriranno.
Era una voce dal timbro caldo e profondo, che parlava in un comune piuttosto corretto ma con un accento esotico che l’uomo non poté esimersi da considerare magnetico, di un fascino irresistibile. Una voce di donna, indubbiamente.
– Ci vorrà ancora qualche giorno, mi dispiace… ma non preoccuparti: qui sei al sicuro. Forse non c’è luogo più sicuro di questo in tutto il Grande Deserto.
Il samurai si voltò lentamente verso la proprietaria di quella voce così avvolgente. Forse stordito dal dolore, non appena riuscì a distinguerne i lineamenti nella penombra, il suo primo pensiero fu quello di avere davanti una creatura di una bellezza straordinaria: si trattava di una fanciulla di poco più di vent’anni, i cui grandi occhi neri, che lo osservavano con un’espressione enigmatica, a metà fra l’ammirazione e la curiosità, erano incorniciati da lunghe ciglia scure. Folti capelli neri e ondulati le ricadevano sulla schiena e sulle spalle nude dalla pelle scura, trattenuti in parte da un velo sottile e trasparente che incorniciava i tratti delicati del volto della ragazza. Le labbra carnose erano perfettamente disegnate e sembravano racchiudere un invito involontario al suo interlocutore. Le forme sinuose erano avvolte in una sorta di camiciola di seta avana e in un’ampia gonna chiara che fasciava le lunghe gambe dissolvendosi poi in centinaia di pieghe. La fanciulla indossava anche molti piccoli monili dorati ai quali erano appesi minuscoli campanelli che tintinnavano leggeri ad ogni suo movimento, producendo una vera e propria armonia sonora.
L’uomo rimase letteralmente senza fiato per qualche attimo, poi riuscì a esprimere le sue preoccupazioni, parlando in un comune un po’ bizzarro.
– La… mia… la mia…
Ricordando che colui che giaceva dinanzi a lei era un guerriero, la ragazza intuì quello che il paziente intendeva dire.
– La tua spada, vuoi dire? È al tuo fianco. Dall’altra parte del giaciglio. E la tua armatura è in fondo alla stanza, ma tu da qui non puoi vederla. Mio padre le ha pulite entrambe con la massima cura e attenzione. È un grande cesellatore, quindi non devi preoccuparti per loro: le ha trattate come figlie. Comunque, immaginavo che avresti chiesto della tua arma non appena ti fossi ripreso, così l’abbiamo lasciata fuori dal fodero.
Il samurai non dubitò nemmeno per un istante che la fanciulla potesse dire il falso, ma volse ugualmente la testa con grande sforzo per guardare il punto che lei aveva indicato: la sua amata katana era lì, esattamente come lei gli aveva detto, e riluceva debolmente alla tenue luce che filtrava dai tendaggi. Un lieve sorriso gli sfuggì dalla bocca.
– Ora che sei più tranquillo, dimmi: come ti chiami?
Il samurai impiegò un po’ di tempo a formulare la risposta: il suo buon senso gli aveva sempre detto di non fidarsi degli sconosciuti, ma in questo caso si rese conto di non essere certamente in pericolo e di dover delle spiegazioni alle persone che, evidentemente, lo avevano salvato da morte certa.
– Kasu… Kasumoto… Sushimada…
– E sei davvero un Dragone di Giada?
Kasumoto annuì, debolmente. Non aveva idea che in quell’angolo di mondo qualcuno potesse conoscere il suo ordine di combattenti, ma non gli parve il momento adatto di domandare spiegazioni.
– Il mio nome è Naima – proseguì la fanciulla, osservandolo con occhi ridenti – e sono la figlia della Prima Veggente di questa tribù. Sono io che ti ho trovato nel Deserto, una settimana fa. Sei stato fortunato, perché non ne avresti avuto per molto ancora…
– U… una… settimana?
Naima assentì brevemente. Si rendeva conto che il samurai doveva sentirsi molto confuso, così cercava di parlare poco e con chiarezza. Si sedette sul giaciglio, accanto a lui, e con la mano gli sfiorò le gambe involontariamente: per un attimo, Kasumoto si sentì come avvampare.
– Forse è meglio che ti spieghi… ti ho trovato semi-sepolto dalla sabbia. Fortunatamente il Deserto raffina molto le orecchie dei suoi figli, altrimenti non mi sarei accorta del lieve rantolo che velava il silenzio assoluto che domina queste zone. Avevi perso conoscenza, e non ti sei svegliato nemmeno quando ho dovuto prenderti di peso e sistemarti sul mio cammello, e quindi, per forza di cose, ho premuto sulle piaghe che il sole stava aprendo su di te. Devo averti fatto un male terribile, ma per fortuna non te ne sei accorto.
Incrociò le braccia, scuotendo la testa. – In ogni caso, la nostra taumaturga, Tahira, ha rimediato alla mia mancanza di accortezza… le tue piaghe non possono guarire del tutto perché il Grande Padre non perdona, ma per lo meno fra breve smetteranno di farti male e ti lasceranno solo qualche cicatrice. Sembrerai solo un po’ rugoso, tutto qui. – Sorrise. Anche Kasumoto le sorrise debolmente, di rimando.
Ci fu un momento di silenzio; poi, con un gesto di una delicatezza e una dolcezza che lasciarono il nobile guerriero più confuso che mai, Naima gli sfiorò il viso con la punta delle dita, tanto lievemente da non provocargli nessun dolore.
– Adesso è bene che tu riposi, Kasumoto, mentre io vado ad avvertire Tahira che finalmente ti sei svegliato… appena starai un po’ meglio, sarà tempo per me di farti da guida in mezzo a noi, poiché la tua convalescenza sarà lunga e quindi dovrai sicuramente fermarti qui per qualche luna… e sarà tempo per te di raccontare la tua storia, se ne avrai voglia… mia madre te lo chiederà sicuramente, anche se immagino che lei sappia già molte cose di te…
Prima ancora che avesse il tempo di chiedersi che cosa mai volessero dire quelle parole, Kasumoto sentì il volto di Naima avvicinarsi al suo, e su di esso era dipinta un’espressione che il samurai, ancora molto confuso, non seppe interpretare. La voce della ragazza era diventata quasi un sussurro. – Però ora non curarti di questo e cerca di dormire sereno… i brutti sogni devono averti accompagnato in tutto il periodo che sei rimasto privo di conoscenza, ma adesso è tempo per te di trovare un po’ di quiete, qualunque sia l’angoscia che ti turba…
Rimasto senza fiato per quel contatto e per quelle parole, Kasumoto si riscosse solo quando vide la fanciulla a un passo dall’uscita della tenda dei guaritori. Quasi senza fiato, riuscì a rantolare qualcosa al suo indirizzo.
– N…Naima…
Lei si voltò, fermandosi a guardarlo. – Sì?
– G… grazie.
Sorridendo verso di lui, la giovane donna scomparve oltre la stoffa dei tendaggi.
Kasumoto reclinò la testa guardando la sua katana: era stata davvero pulita magistralmente, da quel che riusciva a giudicare. Poco distante, scorse la sagoma dei suoi vecchi abiti, che erano evidentemente stati lavati e ripiegati in buon ordine.
Si rese conto di sentirsi inspiegabilmente calmo e tranquillo: dopo tanti giorni passati a vagare nel Deserto in preda a molti bui pensieri, adesso finalmente sentiva di poter riprendere fiato e di potersi liberare dalle sue preoccupazioni almeno per un po’. Senza che se ne rendesse pienamente conto, si lasciò scivolare in una sorta di dormiveglia: stranamente, forse per l’eccessiva stanchezza, nessuno dei terrificanti ricordi del suo passato (da cui era stato tormentato quando non era cosciente) si fece avanti. Il loro posto era stato preso dagli occhi neri e misteriosi della sua salvatrice e dalla curva delle sue labbra che gli parlavano con dolcezza…
“Magari” pensò prima di cedere al sonno “non sono morto e questo non è il paradiso… ma sicuramente gli assomiglia. Gli assomiglia moltissimo. “
Bravo, bravo Kasumoto, sì… Un futuro radioso ti attende!
E dire che prometteva tanto bene…
Ma te quando posti, pezzo di cacchetta?