Un grido le si riverberava nella testa.
Era il grido senza voce dei morti.
Anche lei aprì la bocca per gridare, ma non ne uscì alcun suono. La gola le bruciava e le tempie le pulsavano, dove la grossa chela l’aveva colpita. Sulla lingua il sapore acre della cenere, che a palate la seppelliva pian piano: la cenere di quanti erano morti per causa sua. Perché non era stata abbastanza coraggiosa, perché…
Una mano la afferrò, strattonandola malamente fuori dall’incoscienza in cui era scivolata e a cui stava soccombendo.
– Cazzo, cerusica, apri gli occhi! Se muori te, ci lasciamo la pelle entrambe!
Cristilde sbattè le palpebre e mise a fuoco il volto che la sovrastava: sporco di sangue e di polvere, un graffio sulla mandibola pronunciata, i capelli biondi arruffati dopo la feroce battaglia. E insieme al volto, riaffiorò il tremendo dolore della ferita alla gamba, quasi strappata via da un morso, le fitte delle coste frantumate e il martellio nella testa che non la lasciava in pace, suscitandole la nausea.
Sì, erano tutti sintomi di quanto fosse arrivata vicina a morire.
Quanto sarebbe più facile…
– Avanti, che aspetti? Curati, dannazione!
Le sue mani si mossero animate di vita propria. Rovistarono all’interno della scarsella che ancora aveva a tracolla ed estrassero una siringa piena della medicina che aveva approntato dopo una serie di studi insieme ad altri cerusici dell’Ovestvallo. Nonostante le dita intorpidite dal dolore, riuscì a iniettarsela. Il rimedio amaro le corse lungo il corpo come un’ondata di aghi roventi, togliendole per un attimo il respiro. Solo con uno sforzo riuscì a non vomitare.
Lo spasmo passò, rapido come era venuto, lasciandola ansante e stremata, ma viva e in via di veloce guarigione. Il sangue aveva già smesso di fuoriuscire dalla gambe, le coste si stavano rigenerando, e il martellio alla testa si attenuò, permettendole di tornare a pensare con un briciolo di lucidità.
– Alla buon ora, cerusica!
Sollevò lo sguardo. Ottavia si era lasciata cadere seduta sul pavimento di pietra, a breve distanza da lei, e la stava fissando quasi con rimprovero. Cristilde non riuscì a reprimere una smorfia quasi scocciata per essere stata interrotta mentre stava morendo in santa pace.
– Guarda che mi chiamo Cristilde!
La sua stizza rimbalzò contro un muro impenetrabile. – Bene, stai meglio. Ora vedi di pensare anche alle mie ferite?
La cerusica stava per risponderle per le rime, quando notò gli occhi lucidi di Ottavia, il sudore che le imperlava la fronte, il lieve tremito che le scuoteva le membra. Chiari sintomi di un avvelenamento in atto. Uno sguardo più accurato mise in mostra la profonda ferita alla spalla, proprio sotto lo spallaccio, dove era affondato l’aculeo della coda di un enorme scorpione.
In un attimo il resto passò in secondo piano e Cristilde sentì calare su di sé la fredda calma di chi ha trascorso anni e anni della sua vita a studiare le arti mediche. Tirò fuori dalla scarsella una serie di boccette e scelse l’antidoto giusto. Non era la prima volta che si trovava di fronte al veleno di quelle bestiacce emerse da chissà quale fenditura del Sottomondo. Considerò se farlo bere a Ottavia, ma non era sicura di quanto tempo fosse rimasta svenuta, a combattere tra la vita e la morte, e temeva che il veleno fosse ormai in circolo da troppo per tentare un lento assorbimento dell’antidoto per via orale. Quindi travasò rapidamente il contenuto della fiala in una siringa e lo iniettò direttamente in vena alla guerriera.
– Impiegherà qualche giro di clessidra a fare il suo effetto – annunciò – Presto starai meglio.
Non ricevette che un grugnito di risposta, a dimostrazione di quanto anche Ottavia fosse in pessime condizioni.
Passò quindi a esaminare il resto delle ferite. A parte lo squarcio provocato dallo scorpione, si trattava solo di tagli superficiali. La fece comunque adagiare sulla stoia che portava sempre con sé, quando accompagnava i drappelli al di fuori della protezione delle mura dell’Ovestvallo, e cominciò a ricucire i lembi lacerati. Le sfilò lo spallaccio e cominciò ad applicare unguenti disinfettanti e rigeneranti sulla spalla, cercando di ignorare i sibili minacciosi che di tanto in tanto ancora si facevano udire all’esterno del torrione di spessa pietra.
Non sarebbe dovuta andare così…
Il piccolo drappello che quella mattina, all’alba, aveva lasciato l’Ovestvallo aveva un compito semplice: recuperare materiali e arsenale che dei fuggiaschi imperiali avevano occultato in un vecchio fortilizio abbandonato ai margini orientali della Scacchiera.
Gli esploratori lo avevano individuato qualche giorno prima e il comandante della guarnigione aveva deciso di inviare una squadra.
– Soltanto una dozzina di elementi – aveva deciso – Sarà solo una spedizione di recupero. Tenetevi lontani dai combattimenti. Secondo gli esploratori, quella zona è abbandonata da tempo, non dovreste incontrare pericoli.
Peccato che gli esploratori in questione avessero pattugliato il posto di giorno, e che in realtà di pericoli ce ne fossero eccome.
Il drappello, di cui facevano parte anche Ottavia e Cristilde, in veste di cerusica di campo, aveva raggiunto il vecchio forte, abbarbicato su una collinetta sassosa e spazzata dal vento, nel tardo pomeriggio. Dopo aver messo in sicurezza il perimetro, l’ufficiale che li guidava aveva organizzato i sottoposti in due squadre per setacciare meglio i ruderi e caricare sul carro tutto ciò che poteva essere utile. Il bottino si era dimostrato al di sopra delle loro aspettative: armi da mischia, archi, balestre e dardi in abbondanza, così come vettovaglie e numerosi preparati alchemici che sarebbero stati molto utili alla guarnigione. Il calar del sole li aveva colti ancora al lavoro.
– Ci accamperemo qui per la notte – aveva deciso l’ufficiale – Domattina finiremo di caricare quanto resta e ripartiremo per il vallo.
Ma con le tenebre erano giunti anche i pericoli: enormi insetti, scorpioni e millepiedi giganti erano emersi dalle viscere della terra, vomitati da qualche fenditura del Sottomondo che doveva trovarsi nelle vicinanze. Li avevano attaccati con ferocia animalesca e, per quanto valorosamente si fossero battuti, i veterani dell’Ovestvallo erano stati falciati in pochi giri di clessidra da quello sciame di mostri figli dell’oscurità.
Cristilde aveva un ricordo confuso degli ultimi concitati momenti dello scontro, da quando un enorme scorpione l’aveva caricata a testa bassa. A nulla erano valsi i colpi della sua ascia: la bestia l’aveva azzannata a una gamba, quasi amputandogliela, poi con un violento colpo di chela l’aveva sbalzata via dal corpo del compagno che stava provando a ricucire. Da allora aveva soltanto vaghi sprazzi: la testa che sembrava sul punto di esplodere, la sagoma dell’aculeo del millepiedi che incombeva stridendo sopra di lei, il fiotto di icore nerastro mentre il carapace dell’addome della creatura veniva squarciato da uno spadone, la mano che la afferrava rudemente per la spalla, tirandola in piedi. Poi Ottavia se l’era issata sulla schiena e in qualche modo, mulinando la spada, era riuscita a farsi strada fino al torrione principale del vecchio forte, miracolosamente in piedi e solido, chiudendosi la grossa porta alle spalle.
Cristilde chiuse gli occhi. Di dodici elementi, erano rimaste soltanto in due. Una guerriera ferita e una cerusica altrettanto malconcia, rinchiuse in un vecchio rudere che si sarebbe trasformato nella loro tomba, se gli scorpioni fossero riusciti a trovare un varco.
Per il momento, però, la porta reggeva, e i rumori all’esterno si stavano attenuando.
I bastardi si saranno messi a banchettare con i corpi dei nostri compagni!
Reprimendo un conato a quel pensiero, si concentrò sulle ferite di Ottavia, escludendo il resto che non fosse il proprio lavoro, ciò che per cui aveva studiato una vita intera. Funzionava sempre, e funzionò anche quella volta. Quando terminò di mettere l’ultimo punto e applicò l’ultima benda, si sentiva di nuovo padrona di sé, o per lo meno più calma.
Erano vive. Per il momento erano al sicuro. Dovevano soltanto superare la notte.
L’antidoto aveva svolto la sua funzione, perché il colorito di Ottavia era più roseo e il tremito l’aveva abbandonata. La guerriera si risollevò a sedere e passò lo sguardo sul loro rifugio improvvisato: la base di una torre circolare, spoglia a parte un mucchio di paglia muffita in un angolo. Una scalinata dai gradini rovinanti saliva a spirale verso l’alto, ma si interrompeva dopo pochi metri dal suolo, distrutta dal tempo. O forse dall’assalto di qualche altra creatura del Sottomondo. Del resto, poteva essere quello il motivo per cui gli Imperiali avevano abbandonato quell’avamposto.
– Gran posto di merda – commentò.
– Già – Cristilde si lasciò scivolare indietro e cominciò a riporre gli attrezzi nella scarsella, dopo averli ripuliti dal sangue – Avremmo dovuto andarcene prima che calasse il sole.
– Ma non l’abbiamo fatto.
– No.
– Il nostro ufficiale in carica era un idiota. Eravamo troppo pochi per accamparci di notte all’esterno delle mura.
– Perché non gliel’hai detto?
– Gliel’ho detto. Mi ha risposto che un buon soldato deve obbedire agli ordini. Bah! Se gli ordini sono coglioni, bisogna fottercene!
Cristilde non ribattè. Come poteva biasimare quell’ufficiale, lei che per tutta una vita non aveva fatto altro che obbedire agli ordini? Prima di suo padre, poi dei suoi maestri, poi dei suoi superiori nell’esercito…
Ottavia emise uno sbuffo, si sistemò meglio seduta con la schiena contro la parete, e prese dalla cintura la sua fiasca. La portò alle labbra e cominciò a trangugiare senza ritegno il contenuto.
La cosa ebbe il potere di far saltare i nervi a Cristilde. – Come fai a bere in un momento come questo? Tutti i nostri compagni sono morti, massacrati da quei nostri, e anche noi rischiamo di fare la stessa fine!
– E allora? – Ottavia le lanciò un’occhiata di sbieco – Cosa cambia se rimango sobria?
– Hanno ragione, tu sei pazza!
Per tutta risposta, Ottavia le porse la fiaschetta. – Vuoi un goccio?
– No.
– Peccato. Il vino fa buon sangue, lo sanno tutti. E noi ne abbiamo perso un sacco entrambe, no?
La fissò, con un sorriso sornione, con l’assoluta tranquillità di chi non ha niente da perdere. Cristilde avvertì un lieve sfarfallio nel petto, e dubitava che fossero gli strascichi della botta in testa.
D’impulso allungò il braccio e le strappò la fiaschetta di mano. Prese un sorso prima di ripassarla a Ottavia.
Altro che vino! Quella roba doveva essere un liquore dei più forti. Cristilde se lo sentì scendere in gola come lava e solo con uno sforzo riuscì a non mettersi a tossire. Non davanti a Ottavia, che la scrutava divertita.
Presero a passarsi la fiaschetta in silenzio. Per ogni sorso che prendeva Cristilde, Ottavia ne ingurgitava più del doppio, e in breve l’alcool cominciò a scarseggiare.
– Peccato – commentò la guerriera, agitando la fiaschetta quasi vuota – Credi che qui dentro ci sia anche qualche otre di birra, nascosto da qualche parte?
– Vuoi andare a chiederlo agli scorpioni là fuori?
– Ci andrei, se fossi sicura di trovare altro alcool.
– Ti puzza proprio la vita, eh?
– Parla quella che sembrava quasi incazzata di essere stata salvata, poco fa…
Cristilde tacque. Ottavia aveva colto nel segno, come al solito. Come accidenti faceva quella pazza ubriacona a cogliere sempre i punti deboli della sua armatura?
– Beh, tu non cerchi di morire? – chiese di rimando – Voglio dire, ti getti sempre a capofitto in ogni combattimento, incurante della tua incolumità…
– Certo che voglio morire – rispose Ottavia, con sincerità, come se fosse la cosa più normale del mondo – Ma prima voglio portare con me quanti più imperiali possibile.
Cristilde si morse le labbra. Per gli Astri, erano così diverse, eppure troppo simili.
– Li odi così tanto? – osò domandare infine.
– Certo. Per colpa loro ho perso la persona a cui tenevo più al mondo.
– Questa persona… – la cerusica inciampò nelle parole, non sapendo se e come continuare – Ti ho sentito pronunciare un nome, quando dormivi ubriaca sulla mia branda, il giorno del tuo arrivo… – e infine lo chiese e basta: – Amanita era una donna, vero?
Temeva che Ottavia si arrabbiasse, le intimasse di farsi i fatti suoi. Ne aveva tutto il diritto. Invece le rivolse un altro dei suoi sorrisi in tralice. – Mi stai chiedendo se mi piacciono le donne, gli uomini o qualsiasi altra creatura birichina di Whanel?
Cristilde distolse lo sguardo, imbarazzata, dandosi della stupida. – Lascia perdere, non importa.
– Sei carina quando arrossisci.
– È solo l’effetto collaterale della medicina di prima.
– E sei pure una pessima bugiarda.
Cristilde tacque. Oh, se si sbagliava…
No, in effetti non era una bugiarda.
Era solo una che non diceva tutta la verità.
Era decisa a lasciar cadere il discorso, ma a quanto pareva l’alcol aveva sciolto la lingua di Ottavia. – Senti, da quanto non ti scopi qualcuno?
Cristilde alzò lo sguardo al soffitto. – Che te ne frega?
– Curiosità… eddai, che altro abbiamo da fare qui dentro, a parte scambiarci cazzate?
Dannatamente vero. E poi, che motivo aveva di mentirle? – Da prima di arrivare all’Ovestvallo.
– E quando sei arrivata?
– Ormai da parecchie lune.
Ottavia sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere. – E dici a me che sono pazza…
Cristilde le scoccò un’occhiataccia, sentendosi sempre più in imbarazzo. Sapeva di non averne motivo, ma… di tutti i suoi commilitoni, Ottavia era l’ultima persona con cui avrebbe voluto affrontare quegli argomenti. – C’è qualche possibilità che tu ti metta a dormire e mi lasci in pace?
– Assolutamente no – Ottavia aveva l’aria di chi si diverte un mondo – Piuttosto, – aggiunse, con studiata noncuranza – mi dai una mano a togliere il resto dell’armatura?
Cristilde non aveva uno specchio a disposizione, e ne era grata. Ma bastò l’espressione divertita di Ottavia a farle intuire quale fosse stata la sua reazione.
– Su, non fare quella faccia scandalizzata, sono tutta rotta, e se dormo sul pavimento con questa roba addosso domattina sarò un pezzo di legno, e non riuscirò neppure ad alzarmi, figurarsi pensare ad aprirmi la strada a spadate fino al vallo, se sarà necessario.
– Non puoi togliertela da sola?
– Non vorrei rischiare di riaprire le ferite che mi hai appena ricucito…
Era una scusa bella e buona. Eppure, pur sapendo che Ottavia la stava prendendo in giro, Cristilde cedette. Era troppo stanca per continuare a discutere. E poi…
Ma chi voglio prendere in giro?
Ottavia non la stava costringendo a niente che lei stessa non volesse fare.
Le si sedette accanto e cominciò ad armeggiare con le cinghie dell’armatura, prima il pesante schiniero, poi la cotta che le proteggeva il petto. La camicia al di sotto era strappata in più punti e lasciava intravedere la pelle candida costellata di cicatrici, che dal collo serpeggiavano sulle spalle e lungo il petto. Cristilde le sfiorò con la punta delle dita e subito ritirò la mano, il cuore che accelerava i battiti.
– Beh, non hai mai visto il corpo di una donna prima d’ora? – Ottavia non la guardava adesso, fissava un punto imprecisato davanti a sé, ma la cerusica poteva percepire il suo divertimento – A parte allo specchio, ovvio…
– Ti ho ricucito parecchie volte – replicò Cristilde stizzita e punta sul vivo. Era vero, non era la prima volta che vedeva Ottavia senza armatura o che ne toccava la pelle. Ma stavolta non era nello spedale della guarnigione, non era per ricucire le sue ferite… e lei non poteva più nascondersi dietro il suo ruolo di cerusico.
– E allora che ti prende?
Quando parlò, non era sicura di essere stata lei a muovere la lingua, oppure l’alcol a rispondere al suo posto: – È che sei bellissima…
Ottavia si voltò, il sorriso sulle labbra. Poi la baciò.
Era un bacio più dolce di quanto lei si aspettasse. Più esitante. Un bacio che sapeva di mancanza, con il forte retrogusto del liquore che avevano condiviso, e che durò troppo poco.
Cristilde si tirò indietro, cercando di recuperare il fiato che in qualche modo le era precipitato in fondo alla gola.
– Sei ubriaca – disse, quasi un’accusa.
– E allora?
– Non sono sicura che il bacio di un’ubriaca abbia valore.
Ottavia aggrottò la fronte. – Stupida, io sono sempre ubriaca. È uno schifo essere sobri. Ti ricordi troppi dettagli, e se non affoghi il dolore in qualche modo è lui ad affogare te. Quindi le cose sono due: o ti sta bene così, o non ti sta bene, e allora vattene affanculo. E comunque, mi pari un po’ brilla anche te. E hai bevuto solo qualche sorso… Non reggi proprio l’alcol, fattelo dire!
– Fanculo te – Cristilde scosse la testa – Ma guarda come siamo ridotte: mezze ubriache, mezze nude, e se quegli scorpioni sfondano il portone come ci difendiamo?
– Siamo fottute comunque. Almeno abbiamo già l’anestesia pronta in corpo per quando ci sventreranno.
Cristilde scoppiò a ridere. Maledizione a lei, era dannatamente vero. E contro ogni aspettativa, faceva addirittura ridere. Risero entrambe. Poi Ottavia la baciò di nuovo, questa volta con più trasporto, quasi feroce, mentre le sue mani le aprivano i lacci della giacca di pelle e poi i bottoni della camicia sottostante.
Cristilde non la fermò. Non voleva che si fermasse. A sua volta la liberò dalla camicia lacera e sporca di sangue e premette il petto contro quello di lei, pelle contro pelle, cicatrice contro cicatrice. Si adagiarono sulla stoia, le labbra ancora avvinghiate in quel bacio che bruciava tutto il resto, lasciando soltanto i loro corpi frementi di desiderio.
Ottavia si staccò per fissarla dall’alto, i palmi contro la stoia, le labbra socchiuse e il respiro accelerato.
– Mi vuoi? – domandò, e in quel sussurro vibrava tutto il bisogno teso tra loro. Lo stesso bisogno che Cristilde sentiva cantare in ogni fibra del suo essere.
Stupendosi lei stessa, ripose: – Non c’è niente che abbia mai voluto con tale intensità.
Ed era la pura e semplice verità.