“Fu attorno alla seconda metà dillo secondo millennio dilla Era dei Quattro che Ofelia pose la prima pietra dilla dimora sua. Ella scelse uno sperduto colle sito al confine occidentale dilla Scacchiera, laddove gli ultimi insediamenti cedono il passo alle Lande Selvagge. Una singolare scelta partorita da una singolare mente. Di Ofelia si diceva che avesse barattato il lume degli occhi con uno sguardo in grado di scrutare oltre i più remoti confini. Ella, dunque, s’avventurava in occulte regioni entro cui né saggezza né ragione offrono guida…”
All’improvviso, la piuma di rapace smise di svolazzare sulla cartapecora. Il Moah si alzò dallo scranno e i suoi appunti rimasero lì abbandonati: incompiuti come i pensieri d’un sognatore.
La mano dritta rovistò invano su un lato del desco. Gli occhi vagarono nervosamente attorno e infine trovarono ciò che cercava: “Che sciocchezza, perché qualcuno ancora si ostina a riporre le mie stimate carte sulla parte sinistra della scrivania?! Oppure oggi mi sono seduto dall’altra parte?”
Scosse il capo, allungandosi e prelevando un libriccino dalla strana copertina di sughero. Sfogliò le pagine lentamente e poi s’immerse in una profonda lettura… il lungo becco della maschera seguiva le minute righe come una sorta di dito e le labbra appena visibili davano voce a quelle arcane parole.
“Quattro sono gli Umori che bagnano la carne a guisa di linfa vitale. Il loro equilibrio favorisce la salute dillo corpore, la quiete dilla mente et la pace dillo spirito. Al medesimo tempore se uno prevale sugli altri, ratto quella peculiare essenza affiora nel soggetto. Siffatto stato, altresì ditto discrasia, est più comune di quanto s’abbia a ritenere. Invero non ho conosciuto individuo che non ne sia affetto e anche nella persona più misurata uno dei Quattro tende a prevalere. Sanguine che dà respiro alli iuvenili ardori, Cerea Bile che nutre la bestia collerica, Atra Bile per chi giace sepolto tra meste memorie, Flegma per chi sprofonda nel dedalo dillo raziocinio…”
Un sordo rumore giunse dal lato della sala immerso nella penombra. Il Moah ripose il libro e senza prendere con sé un lume, entrò in quell’angolo buio. La sue dita colsero qualcosa che pendeva inerte dal bordo di un grezzo catafalco… dopo averlo rimesso al suo posto, si concesse qualche attimo per contemplare uno dei suoi cimenti più recenti.
“Non credo che la pazienza sia la migliore delle tue doti… dovrò averne per entrambi, dunque.”
Un refolo d’aria, fredda e pungente, s’insinuò tra le imposte socchiuse. Il Moah borbottò e, tornando entro il fioco bagliore delle candele, raggiunse la finestra con l’intenzione di sigillarla. In quel momento un incomprensibile verso dal tono basso e lugubre giunse da fuori.
Subito l’uomo spalancò le persiane: di fronte a lui stava l’ingresso della Casa, la cui leggenda era legata a una delle più buie pagine di Villamasca. Tutto presso la soglia sigillata appariva immobile e il silenzio del vespro era rotto solo dal lontano canto dei Sospesi… non vi erano legioni di lemuri intenti a strisciare tra le piante del giardino né cupe ombre di spettri che vagavano in cerca del calore vivente.
Sospirando, il Moah tornò a rivolgere i suoi pensieri a Ofelia. Forse i suoi occhi privi di vista avrebbero potuto discernere le molteplici verità che erano sopite in quel luogo. Del resto, la donna aveva scelto di sacrificare la vista mentre lui aveva perso un braccio… esisteva un dio, magari uno di quelli pazzi, costretti a errare come esuli nel Cosmo o nella Terra, disposto a concedergli qualcosa in cambio di quel tributo?
Una di tante speculazioni destinate a non trovare risposta.
Così trascorreva la notte a Nebin, laddove tutti dormono onde vegliare.