“Perfetto.” pensò con freddezza il giovane Nobile. Sollevò lievemente la maschera dorata che nascondeva la parte superiore del viso e si stropicciò gli occhi stanchi.
Sorrise, seppure non con convinzione. Il rapporto, stilato con rapida efficacia, faceva bella mostra di se, adagiato su di un vecchio tavolino di legno Alemarita.
Per un attimo, Ludovico ebbe un tuffo al cuore, quando nella mente si formò il ricordo della scrivania consunta e sporca che si trovava nelle stanze della servitù dove lavoravano suo nonno, sua madre e sua zia. Quanta fatica avevano fatto, quanta pazienza, quanta strategia. Ma per cosa?
Per sentirsi chiamare cane, ladro, sfruttatore in ogni terra straniera. Per essere sempre trattato con circospezione, soggetto al vilipendio di chi non sà accettare, di chi non riconosce con umiltà. Quella stessa umiltà per mezzo della quale suo nonno aveva dimostrato la propria forza e la determinazione di una famiglia pronta a tutto.
“Cosa significa Nobiltà?” si trovò a chiedersi il meditabondo Malinverni. E’ una scomoda maschera portata sul volto? E’ un marchio distintivo che garantisce il diritto degli altri di immaginare chi o cosa tu sia o quali siano le tue intenzioni?
No. Per Ludovico Guastardo Malinverni la Nobiltà era un traguardo, un’ utopia di perfezione e miglioramento. Il sobbarcarsi di responsabilità e scelte obbligate in cambio di rispetto. Rispetto.
Quel rispetto atto a riconoscere la fatica fatta per averlo. Quel rispetto che risultava introvabile all’esterno di Sathòr. Perchè?
Il sangue cambiava una volta superata una frontiera? La fatica fatta per raggiungere la cima non era forse vera anche dopo essersi lasciati la montagna alle spalle?
Un confronto, ecco cosa ci voleva. Ludovico chiuse gli occhi, perdendosi in ricordi recenti. Il volto della Contessa Katrinalea Goska, le parole di quella donna durante l’udienza privata. Cosa otteneva concedendo tanta libertà ai suoi sudditi? Quanto poteva esserle utile il mancato controllo dei suoi seguaci?
Domande retoriche. Un popolo di arroganti ed offensivi ometti, pronti a vedere i peccati degli altri, ma non i propri. Ecco il risultato. Migliaia di dita puntate ed accusatorie, dita di mani attaccate al nulla. A vane accuse, a parole ipocrite e velenose.
Sarebbe davvero successo tutto questo, chessò, ad un Nobile Falsimita? C’è da immaginarselo. Lo avrebbero ascoltato, per una mera questione di origini. Avrebbero lasciato che le manine unte e scivolose dell’invalido Conte Eberardo accarezzassero la metà dell’ Argopea. Per poi riaverla indientro. O sarebbe andata la stessa Galbadia a supervisionare il tutto. Infondo, Falsim è un luogo tranquillo. I Falsimiti sono persone tranquille, affidabili.
I Nobili Sathòriani no. Sono ladri, assassini, sfruttatori. Perchè? Perchè si. Punto. Le motivazioni logiche collidono con la xenofobia. Nel paese dei liberi Alemariti. Liberi si, di odiare i loro alleati.