Ognuno sceglie le proprie battaglie

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Il vento ululava rabbioso tra gli alberi di Corcovlad, carico di neve ghiacciata e tagliente. La bianca coltre si alzava nell’aria in ampie volute, sospinta dalla tormenta, schiaffeggiando il viso già pallido del viandante, avvolto in un pesante mantello di lana scura. I suoi occhi scuri leggevano le correnti d’aria come un libro aperto, ogni foglia cadente gli narrava una storia diversa, ogni fiocco di neve gli raccontava del mondo visto dal cielo. L’uomo avanzava lentamente, eppure sembrava scivolare in mezzo alla bufera come un’ombra silenziosa nella notte. Sapeva che avrebbe trovato la sua preda. Bastava solo saper aspettare e lui si sarebbe mostrato da solo.
– Mi stavi cercando, Ivan Tre Passi?- gli sussurrò una voce all’orecchio, fredda e letale come la tempesta stessa. L’alfiere trattenne leggermente il fiato; abituato a non lasciar avvicinare nessuno a sé, l’esperienza di trovarsi qualcuno all’improvviso addosso gli dava sui nervi, ma dopotutto colui che stava cercando non aveva più un corpo, o forse non l’aveva mai avuto. E nonostante ciò, lo avrebbe dovuto uccidere.
– Sono anni che ti cerchiamo, bellezza – mugugnò Ivan. – Sapevamo che stavi solo aspettando un’altra occasione per ritornare a dar noia a qualcuno da quando hai perso il tuo ultimo corpo, e di questa stagione quelli come te si fanno più perniciosi e pronti ad agire.
Come una ruvida carezza, un refolo di vento fece scivolare via la sciarpa che copriva parte del volto del guerriero. Stava giocando, pensò Ivan. Tutto per lui è un gioco, e divertimento malsano; il suo unico scopo era vedere i mortali strisciare attorno a lui, e Ivan sapeva che ci avrebbe provato anche con lui.
– Sono lusingato dal sapere che la Mano del Fato mi pensa così tanto… Quale onore essere nei vostri pensieri! E dimmi, il mio fratellino Aleksandar come sta?
Ivan si frugò nella tasca ed estrasse un rotolo di tabacco, cacciandoselo tra le labbra con gesto stizzito e mormorando quasi tra sé e sé.
– Primo, si chiama Zadnja, non Aleksandar. Secondo, suo fratello era Iliador Jagoda Kolovoz, e non tu, figlio di puttana. Terzo, se continui a girellarmi così vicino non riuscirò ad accendermi il tabacco, quindi scansati.
Con calma Ivan estrasse Luna Spezzata, la sua arma, poi rovistando nella scarsella estrasse l’acciarino; conficcò la lama a terra e poi cercò di accendersi la sigaretta riparandosi dal vento.
– Non girarci intorno, Sajal – bofonchiò Ivan, il viso illuminato a tratti dalle scintille dell’acciarino. – Qual è la tua offerta?
La presenza dello spirito vorticava intorno a lui come la tempesta stessa, avvolgendolo, strattonandolo, abbracciandolo, cullandolo, sussurrandogli parole incomprensibili all’orecchio. Era la danza di Sajal, il suo rituale di corteggiamento prima che ti facesse suo.
– Sei un eterno secondo, Ivan…- bisbigliò la voce sottile di Sajal al suo orecchio. Nella neve cadente iniziarono a stagliarsi i tratti di un viso deforme, dagli occhi troppo grandi e troppo malevoli, come pozzi incandescenti, e con un sorriso simile ad un ghigno colmo di denti affilati; lunghe dita grifagne accarezzavano le spalle del crepuscolare aggrappandosi alle sue vesti, come le zampe di un ragno.
– Pensaci, Ivan… Quando mai hai primeggiato? La tua fama di combattente è diffusa in tutto il Meridione, è vero, ed il tuo soprannome di precede, ma quanti pensi che siano coloro che a questo mondo ti possano battere? Ancora troppi, Ivan… Non sei mai riuscito neanche ad affermare la tua supremazia su quella smorfiosa di Estrella Longini, considerata da tutti la tua rivale… E in confronto a quelli che erano i tuoi discepoli? Coloro che sono cresciuti guardando la tua schiena adesso camminano innanzi a te… E di questo ti accontenti, Ivan?
L’espressione dell’alfiere era seria e pensierosa, e la sua pelle pallida sembrava mescolarsi con la neve, tanto che il suo volto sembrava sfumare nell’aria. I suoi discepoli… La gente di Alemar parlava ancor oggi di quello che quei due fecero tre anni prima … Quell’episodio che i cantastorie chiamavano la Fuga dall’Isola…

* * *

– Odio quando dice così… LO ODIO LO ODIO LO ODIO!
– Katrinalea, neanche tu lo conoscessi… Quando si mette in testa una cosa lo sai che niente gli fa cambiare idea…
– Beh, quest’idea è particolarmente STUPIDA, Shillark! “Suvvia, entro dentro la magione, consegno il sigillo ed esco subito”… Ma perché è così cretino? Non mi son fatta tre giorni di nave per aspettarlo fuori dalla porta!
– Forse Velik ha ragione, stavolta… Magari se fossimo entrati assieme avremmo potuto trovare qualche brutta sorpresa all’uscita, mentre così almeno la via per andarcene la teniamo libera!
– Zadnja non ti ci mettere pure te, eh! Sono già abbastanza girata per conto mio!
– Certo che sei poco furbo a metterti contro Kohorta, eh!
– Non ti ci mettere anche te, Izzie…
I quattro se ne stavano a discutere fuori dalla porta della Magione della Fenice sull’isola misteriosa quando ci fu la prima scossa. Fu leggera, appena percettibile, ma la terra tremò vagamente e un rombo sordo fece alzare in volo alcuni degli uccelli che avevano preso dimora sugli alberi dell’isola neonata. Katrinalea alzò la testa in allarme, mentre gli altri si guardavano intorno.
– Che cazzo è stato? CHE CAZZO E’ STATO?- urlò la Contessa, il viso rosso di rabbia e paura.
– Magari è una scossa d’assestamento… L’isola è nata da poco, magari sta solo riassestandosi sul fondo…- commentò Izzie ostentando sicurezza, sebbene la voce tradisse una nota di apprensione.
La seconda scossa li gettò quasi tutti a terra e durò una manciata di secondi; stavolta il rombo fu prolungato e le cime degli alberi oscillarono preoccupantemente. Alcune crepe segnarono la terra secca intorno all’edificio e grossi frammenti di roccia furono sputati da esse.
– Io entro – disse Katrinalea rialzandosi di scatto, già furiosa. Si gettò sulla porta come un lampo, ma nell’atto di entrare cozzò contro di essa, accorgendosi che l’uscio non aveva intenzione alcuna di aprirsi. La Contessa imprecò fra i denti.
– Apriti! Stupida porta! Non ti ci mettere anche te! Apriti! – iniziò ad urlare provando ad aprire la porta nuovamente e senza successo, poi iniziò a tempestarla di pugni. Shillark afferrò i polsi di Kohorta con forza quando vide che le nocche della Contessa cominciarono a macchiarsi di sangue.
– Piano! Piano!- le intimò l’alfiere, mentre la Contessa continuava nei suoi improperi. Non andava bene. Non andava affatto bene. – Izzie, tu puoi fare qualcosa?
– Ci provo – sussurrò la ragazza. C’erano amici loro là dentro, amici suoi, forse anche più di amici, almeno uno di loro. Avrebbe tentato. Dalla borsa estrasse un paio di fialette dai colori accesi, le stappò coi denti e versò il contenuto di esse sulla maniglia e sui cardini della porta con gesto rapido; subito un denso fumo scuro iniziò ad alzarsi dalla miscela dei due componenti, e Izzie fece un passo indietro coprendosi gli occhi prima che il miscuglio esplodesse in un mare di scintille. Eppure, quando la polvere si diradò la porta era perfettamente salda al suo posto.
La terra, come reagendo all’evento, prese a tremare di nuovo, con nuova e incredibile intensità e questa volta non sembrava intenzionata a placarsi. Dalle crepe al suolo iniziò ad uscire un denso vapore biancastro, e a tratti si aprivano voragini che ingoiavano le piante in pochi istanti; il cielo si rannuvolò e il mare, in lontananza, prese a schiumare rabbiosamente, scuotendo le navi ormeggiate al largo.
Con un urlo ferale Zadnja si buttò a spada sguainata sulla porta, facendo scendere un poderoso fendente; il suo Orizzonte del Mondo Infranto, quello che era il suo colpo migliore, capace di infrangere non solo qualunque metallo ma le leggi stesse del creato, passando attraverso tutti i suoi reami contemporaneamente, spinto da un violento rilascio di rabbia, forza e decisione. Con quel colpo aveva ucciso persone sul colpo, aveva distrutto le armi incantate più resistenti e aveva addirittura colpito creature che non erano neanche materialmente innanzi a lui, ma sulla porta non sembrò apparire nemmeno un graffio.
– Se resiste a questo non so cos’altro fare- sibilò Zadnja, livido di rabbia. L’isola sembrava urlare di dolore, cercando di scuotersi dalla sua sede e creando un vero scenario apocalittico; solo la magione sembrava intatta, immune a quanto succedeva intorno a lei.
– Dobbiamo entrare!- urlava Katrinalea continuando a colpire la porta. – Ullian è dentro! Gli altri sono dentro! Dobbiamo andare da loro! Dobbiamo andare da quel cretino!
Shillark si morse il labbro fino quasi a farselo sanguinare. Doveva salvare i suoi amici, i figli di Alemar, quello era il credo a cui si era votato. Aveva giurato che avrebbe protetto le persone a lui care. Eppure quelle persone erano dentro una magione dentro la quale sembrava impossibile entrare, e loro erano là fuori, a rischiare la vita per raggiungerli… C’era una sola cosa da fare…
– Dobbiamo andarcene – disse Shillark risoluto. Gli altri tre si paralizzarono.
– Ma… Gabriel… Samuel… Jep… Kasumi… sono là dentro…- mormorò Izzie, a malapena udibile sopra il rombo del terremoto, l’espressione devastata.
– No – disse Katrinalea decisa, gli occhi spiritati. – No. No. No. Lui è là dentro. Devo andare da Ullian.
Shillark la prese per le spalle, scuotendola e guardandola negli occhi. Doveva essere inflessibile, se voleva ottenere qualcosa con lei.
– Ullian se la caverà, Katri…
– VAFFANCULO SHILLARK! IO NON ME NE VADO DI QUI SENZA QUELLO STRONZO!
Shillark rimase immobile solo un attimo, investito dall’urlo di Katrinalea, e il sangue gli salì al cervello.
– VUOI RIMANERE QUI A MORIRE? BENE! ULLIAN E’ LI’ DENTRO, COME GLI ALTRI, E NON USCIRA’! VUOI RIMANERE QUI A MORIRE ASPETTANDOLO? FAI PURE!
La terra tremava sempre più, e sembrava che gli animi vibrassero allo stesso modo di quella rabbia primordiale, di quella paura infinita. Gli occhi di Katrinalea si riempirono di lacrime mentre colpiva in pieno petto Shillark con un pugno.
– NON ME NE VADO DA QUI SENZA DI LUI! NON PUO’ LASCIARMI DA SOLA ADESSO! IO SONO INCINTA, SHILLARK!
Il mondo trattiene il fiato per un secondo intorno a loro, e quel mondo esplose nella testa di Shillark. Era chiaro quello che doveva fare. Era lampante.
Shillark afferrò Katrinalea per la vita, sollevandola, e se la caricò in spalla. Kohorta protestò vivacemente scalciando e colpendolo con forza sulla schiena, provando a divincolarsi.
– LASCIAMI ANDARE, CAPITO? IO RESTO QUI! IO NON ME NE VADO!
Ma Shillark era diventato improvvisamente sordo a quella supplica. Li avrebbe salvati tutti, lo sapeva e lo doveva fare. Era l’unica cosa da fare. Prese Izzie per mano, tirandola, ed iniziò a correre facendo un cenno con la testa a Zadnja di seguirlo. Evidentemente anche l’altro alfiere aveva capito, perché si mise a correre al suo fianco.
L’isola franava intorno a loro. Gli alberi sparivano nel profondo della terra, e le rocce si alzavano in picchi improvvisi prima di franare. Zadnja ne sbriciolò un paio con possenti fendenti per fare strada agli altri, mentre Shillark correva portando Katrinalea in spalla, ancora scalciante e urlante, e trascinando Izzie. Era la fine del mondo, tutto tremava e sbuffava e si alzava, come se ogni elemento del creato si stesse scatenando nel rendere quella fuga impossibile e mortale. Corsero con quanto fiato avevano in corpo a capofitto, schivando massi cadenti e crepacci improvvisi; le navi avevano già mollato gli ormeggi e Shillark le vide allontanarsi dalla riva, ormai inghiottita dai marosi. Non ce l’avrebbero fatta ad arrivare a nuoto fino alle navi con quel mare, e l’idea stessa di raggiungere la riva era folle. Rimaneva solo…
– Io ci provo, Zadnja – urlò Shillark caricando anche Izzie in spalla. Zadnja sbriciolò un tronco cadente con un fendente preciso, poi girandosi incontrò lo sguardo dell’amico che scrutava verso l’orizzonte. Sembrava non fare più caso al braccio tumefatto e dolente dall’aver portato la recalcitrante Katrinalea in spalla, né al fiatone che gli scuoteva il petto, né tantomeno alla distruzione che imperversava intorno a loro.
– Pensi di farcela?- ansimò Zadnja, guardandolo in tralice. L’amico alfiere commentò stringendo i denti e flettendo leggermente le gambe.
– Non lo so. Non ci devo pensare.

* * *

– Non ci devi pensare – gli aveva detto Ivan. La faceva facile, lui, mica era lui ad avere i muscoli indolenziti allo stremo e ad essere pieno di lividi. Shillark si sentiva le ossa incrinate dai tanti colpi che aveva preso dalla spada di legno di Ivan e non riusciva a trovare un varco nel suo stile di combattimento. Eppure ce la doveva fare. Zadnja si era trasformato nel Demone di Ferro ed aveva incrociato la lama con lui, ed era certo che non ce la poteva fare al momento; pur avendo due Orizzonti aperti ed essere stato benedetto da Urama stesso, conosceva bene i suoi limiti e sapeva che Zadnja o quello che era diventato era ben più di un passo avanti a lui. Con un singolo affondo aveva quasi ucciso Samuel in un momento in cui nessuno al mondo sarebbe stato in grado di colpirlo, e un gran numero di combattenti valenti era caduto innanzi a lui; quando muoveva quella spada sembrava che la Morte corresse su di essa e si abbattesse sullo sfortunato bersaglio. Se voleva avere una possibilità di colpirlo, di mandarlo a terra e strappargli quell’armatura da dosso se fosse stato possibile, doveva evitare di trovarsi nel suo raggio d’azione. Per questo aveva chiesto aiuto ad Ivan Tre Passi per allenarsi e capire come fare a sostenere quella sfida, ma tuttora non riusciva a cavarci un ragno dal buco. Inginocchiato dalla fatica, la lama da allenamento in mano, Shillark sputò a terra la polvere che gli era entrata in bocca e cercò un attimo di refrigerio all’ombra delle robuste conifere alemarite. Doveva esaminare con calma quello che sapeva, ma la rabbia e l’impotenza gli stavano ottenebrando il giudizio.
– Non ci devi pensare, Shillark – gli ripeté Ivan, appoggiando la punta della lama a terra. – Finché rimani ancorato al ragionamento non potrai superare i tuoi limiti.
Shillark scattò in avanti con un balzo, arrivando a pochi piedi da Ivan e preparandosi a levare il colpo sfruttando il fattore sorpresa. Eppure nuovamente, come ogni singola volta da quando avevano iniziato, Ivan lo colpì per primo. Alla testa, all’addome, alle gambe, alla schiena. Una gragnola di colpi investì Shillark che trattenendo un mugugno di dolore si accasciò nuovamente, mentre Ivan, ancora innanzi a lui, abbassava nuovamente la spada.
– Non ho mai apprezzato che la gente mi stesse vicino – commentò Ivan. – Ho sempre misurato il mondo con la mia spada, le mie braccia, le mie gambe, trovando la giusta distanza a cui il mondo doveva stare, e tutto quello che stava all’interno del mio thanpura era qualcosa di alieno al mio essere. Eppure, la prima volta che utilizzai il mio bankai ero con le spalle al muro… Ero giovane e avevo aperto da poco il mio primo orizzonte, quando un gruppo di briganti mi colse di sorpresa mentre riposavo sotto un albero. Erano quattro, con le armi in pugno ed erano troppo vicini per poter tentare di affrontarli uno a uno, e già sentivo l’acciaio penetrare nella mia gola. Cosa fare? Se avessi attaccato quello innanzi a me quello alle mie spalle mi avrebbe colpito alla schiena, se mi fossi girato avrei offerto il fianco agli altri. Qualsiasi piano mi venisse in mente, ero sotto scacco. E fu lì, sull’orlo della morte, che decisi che quella poteva essere la mia ultima battaglia e l’avrei combattuta sino in fondo, attaccandomi a quanto avevo con anima e corpo. Non mi ricordo chi attaccai per primo, ma mi ricordo che in un istante era tutto finito e i quattro erano esanimi a terra con i segni della mia lama addosso; nella disperazione ero riuscito a colpirli tutti in modo estremamente rapido e mi ero così salvato la vita. E tutt’ora devo estraniare la mia mente quando intendo utilizzare il bankai, o non avrebbe lo stesso effetto…
– E’ la prima volta che ti sento parlare così tanto…- intervenne Shillark alzandosi. – Nemmeno credevo che le conoscessi, tutte queste parole.
– Una volta portavi più rispetto- sbuffò Ivan, puntando la spada verso di lui.
Shillark pensò di uscire dal thanpura di Ivan finché era in tempo o avrebbe preso un’altra sonora batosta, ma poi fu il suo corpo a decidere per lui. L’alfiere capì solo che fino a quel momento la paura era stata il suo limite, quello che lo aveva trattenuto spingendolo ad aver timore di essere colpito… ma quello che lui cercava era una tecnica d’attacco, non di difesa! E la cosa più semplice da cui partire era sempre stata innanzi a lui. Il suo bersaglio.
Ivan sentì la lama di Shillark sfiorargli il petto, ma ciò che i suoi occhi videro fu il ragazzo che spariva innanzi a lui e alcune foglie che si alzarono da terra come per un colpo di vento. Nessun rumore, nessuno spostamento, niente di niente. Un ghigno gli deformò il volto quando si rese conto che qualcuno aveva superato il suo bankai. Shillark, alle sue spalle, stava appoggiato ad un albero respirando rumorosamente, la fronte imperlata di sudore ma un sorriso sghembo che gli attraversava il viso. La voce spezzata dall’affanno tradiva un tono trionfale.
– Non ci dovevo pensare, avevi ragione.

* * *

Shillark annuì tra sé e sé, come convincendosi da solo. – Non ci devo pensare.
Zadnja ridacchiò al suo fianco, contemplando la distruzione intorno a loro, poi con gesto secco si mise a correre verso le onde tempestose, urlando sopra il rombo sordo dell’isola che andava sprofondando.
– Ci si vede, corvetto! Io affronto il mare, a te lascio il cielo!
Shillark fletté le gambe allo stremo, assicurandosi bene Katrinalea e Izzie sulle spalle. La Contessa aveva ormai il volto solcato di lacrime e livido d’ira, e continuava a urlare improperi verso il suo consorte ed il resto dell’Universo mentre Izzie era pallida di paura. L’alfiere si convinse che ce la doveva fare per loro, per quel bambino che Katrinalea portava in grembo, per il futuro di Izzie, a cui il passato era stato negato. E poi saltò.
Il primo bersaglio contro cui si diresse fu una roccia che stava cadendo da uno sperone roccioso, poi la chioma di un albero cadente, poi un uccello variopinto che stava tentando la fuga. La sua tecnica, il Volo del Corvo, gli permetteva di spostarsi nella direzione da lui voluta senza quasi considerare gli ostacoli nel mezzo, investendoli o colpendoli nella sua carica, ma aveva bisogno di un bersaglio a breve portata, e più si allontanava da terra più i bersagli iniziavano a scarseggiare. Provò ad usare la fantasia, e si diresse come un lampo verso un piccolo sbuffo di vapore, ma quasi perse l’equilibrio; stava perdendo spinta e non sapeva più dove andare…
“A te lascio il cielo”, gli aveva detto Zadnja. “E così sia”, si disse Shillark.

Quando l’alfiere riprese i sensi era disteso su una pila di casse e non riusciva a muovere le gambe. Era completamente fradicio e la testa era annebbiata. La luce gli feriva gli occhi, ma intravide due sagome che lo stavano guardando chine sopra di lui, e una gli stava applicando un bendaggio.
– Finalmente ti sei svegliato – disse Izzie con un mezzo sorriso. Era pallida e batteva i denti per il freddo, interamente inzuppata da capo a piedi. Shillark provò a parlare, ma le parole gli morivano in testa tanto era stordito; la ragazza gli fece cenno di tacere, e l’altra figura si fece avanti, facendosi riconoscere come uno Zadnja bagnato ma sorridente, con quella strana espressione mista di felicità e malinconia che era solo sua.
– Siamo sulle navi ormeggiate al largo dell’Isola… Vi hanno recuperato in mare, hanno detto che hanno visto qualcosa in aria avvicinarsi alla nave e piombare in mare come un masso gettato da una catapulta, ed eravate tu, Izzie e Kohorta… Quanto ti ho detto che ti lasciavo il cielo scherzavo, corvetto…
– Ci hai fatto scudo con il tuo corpo – mormorò Izzie. – Per attutire la caduta in mare. Non ti potrai muovere per qualche giorno ma… Beh, quello che hai fatto non ha dell’umano, quindi non mi stupirei se ti riprendessi prima…
Shillark riuscì a malapena ad alzare la testa e vide Katrinalea seduta ai suoi piedi. Gli occhi segnati dal pianto, ma anche da una cupa decisione, scrutavano verso un punto di mare schiumante sotto un cielo innaturale, colmo di nubi giallastre.
– Loro sono là, Shillark… – affermò la Contessa a bassa voce. – L’Isola è scomparsa, ma loro sono ancora là, lo sento… Ci devo credere… Ullian è ancora là…
La voce di Shillark arrivò come un rantolo dall’oltretomba, tanto era stentata e affaticata.
– Noi li aspetteremo, Katrinalea. Perché siamo vivi e siamo qui. Fino a quando non li rivedremo, noi li aspetteremo.
Gli occhi di tutti guardarono verso il mare. Avrebbero aspettato. Da quel giorno, conosciuto come la Fuga dall’Isola, gli alemariti si riferirono a Zadnja ed a Shillark come ai “Due sopra l’Orizzonte”, il Demone di Ferro e l’Angelo di Acciaio…

* * *

Il Demone di Ferro e l’Angelo d’Acciaio, i suoi discepoli… Ivan ridacchiò tra sé e sé al pensiero di quei due stupidi e di quanto avevano fatto per Alemar. E adesso le leggende erano loro, erano loro quelli acclamati dalle folle… E Ivan Tre Passi? Che ne era di Ivan Tre Passi?
– Hai ragione, Sajal, sono cresciuti ed adesso sono dei miti viventi… hai pienamente ragione…
Nella bufera la sagoma di una bocca distorta in una sguaiata risata esplose dal nulla innanzi agli occhi dell’alfiere e l’eco della voce gracchiante di Sajal si alzò fin sopra l’ululato della tormenta di neve.
– Hai capito, dunque, Ivan! Unisciti a me e vedrai che non avrai più rivali!
Gli artigli nevosi di Sajal si chiusero sulle spalle dell’alfiere e una densa brina si formò istantaneamente sul suo mantello. Con un gesto secco, Ivan se la scrollò di dosso e gettò la sigaretta a terra.
– Vedi, Sajal, l’unico problema in tutto questo è che sei un idiota.
Stridendo, lo spirito di Sajal indietreggio. Nella tempesta, la sagoma della creatura crebbe fin oltre la testa di Ivan ed iniziò a torreggiare su di lui minacciosamente, estendendo minacciosamente gli artigli e digrignando i denti.
– Cosa dici, Ivan? Ti sta bene dunque essere l’eterno secondo? Essere dietro agli altri?
Il crepuscolare alzò Luna Spezzata in posizione di guardia, lo sguardo scuro e truce sotto la zazzera di capelli neri.
– Sei un idiota, Sajal. Pensi che non mi sia già fatto questo discorso da solo? Eppure è così. Io ero il primo, ed adesso lo sono loro, così altri lo saranno dopo di loro e qualcuno lo è stato prima di me. Le leggende nascono e muoiono ogni giorno, ogni volta che battiamo le ciglia. E’ il ciclo naturale delle cose. – Ivan sogghignò leggermente. – I ljekarna dicono che il mio corpo non può più sostenere la mia tecnica. L’ho stancato troppo, ma gliene sono grato. Ho vissuto in modo che non avessi un solo rimpianto e ho compiuto le mie scelte, come quella di essere qui, oggi, per porre fine alla tua esistenza, e non c’è niente che mi possa rendere più lieto che essere me stesso fino all’ultimo. Ognuno sceglie le proprie battaglie, e io ho scelto che questa sia l’ultima.
La lama di Ivan turbinò intorno a lui a velocità incredibile, fino quasi a sparire, e numerosi rami finirono spezzati dalla furia dell’attacco, eppure Sajal riuscì convenientemente a ritirarsi. Lo spirito rise di nuovo sguaiatamente.
– Non puoi niente contro di me, Ivan – gioì Sajal, fluttuando dietro un albero per avere una copertura. – La tua tecnica non può funzionare qui contro di me! Con tutta questa neve a terra sono in grado di vedere le orme dei tuoi passi nonostante la tua velocità! Non puoi colpirmi, non puoi farcela in alcun modo!
– Ma stai zitto – sbuffò Ivan improvvisamente alle spalle di Sajal, trapassandolo con la lama da parte a parte. Ci fu un lampo di luce quando lo spirito fu colpito, e un tremendo vento si alzò dal corpo della creatura mentre perdeva nuovamente consistenza e si disperdeva nella neve, sparendo nel nulla con un urlo agghiacciante. Ivan guardò verso il cielo. Il corpo gli sembrava trapassato da milioni di spilli per l’eccesivo sforzo, ma la neve sul viso gli dava un piacevole, rilassante refrigerio.
Cercò di rinfoderare Luna Spezzata, ma si accorse che la spada non si muoveva. Per l’affondo, la lama era penetrata per oltre tre spanne nel tronco di un poderoso albero e adesso sembrava incastrata. Ivan sbuffò prendendola con entrambe le mani e la tirò a sé, ma l’arma sembrava non volerne sapere di uscire, nonostante gli sforzi. Ivan si terse il leggero velo di sudore dalla fronte lasciando andare l’impugnatura.
– Così hai scelto, amica mia. Questa era davvero l’ultima volta per noi.
L’alfiere si voltò di scatto, aggiustandosi il mantello sulle spalle e coprendosi la testa con il cappuccio e la sciarpa, poi si allontanò nella tormenta, mescolandosi ad essa.

* * *

Il sole baciava leggero le fronde verdeggianti di Corcovlad, mentre i due ragazzi si erano fermati a sedere sotto un grosso albero e bevevano un sorso d’acqua dalle loro borracce. Il più anziano dei due sembrava parlare instancabilmente con un ampio sorriso sul viso mentre l’altro lo ascoltava intento.
– … e questa dunque è il Credo del Vento, il secondo precetto che un alfiere come tu vuoi diventare deve seguire, non è così difficile da capire, suvvia… ehi, ma mi stai ascoltando?
L’attenzione del più giovane era stata rapita da un bagliore proveniente da un pino ultrasecolare; con un balzo si alzò in piedi e si avvicinò ad esso, notando l’elsa decorata di una spada spuntare dal tronco.
– E questo cos’è, brat? Che ci fa una spada qui?
Il più anziano sorrise passandosi una mano fra i capelli, pensando.
– La leggenda vuole che questa sia Luna Spezzata, la lama che una volta apparteneva al grandissimo alfiere Ivan Tre Passi, uno dei più famosi alfieri della plurimillenaria storia di Alemar che visse oltre un secolo fa… Si dice che nessuno conoscesse scampo dal suo attacco, e il suo nome deriva proprio dal fatto che chiunque gli si avvicinasse entro tre passi avrebbe conosciuto morte certa! In questo luogo dovrebbe aver combattuto la sua ultima battaglia; dopo di essa si dice che non combatté mai più, ma formò una generazione di alfieri imbattibili e dal coraggio indicibile, che formarono l’ossatura della prima Armata del Corvo assieme al grandioso Demone di Ferro ed al leggendario Angelo d’Acciaio, anch’essi addestrati da Ivan stesso! Si dice che sia sparito durante una battaglia al margine del Deserto Nero senza che nessuno lo vedesse più, ma quelli accanto a lui raccontarono di avergli sentito dire che “ogni eredità prima o poi verrà raccolta”…
Mentre il vecchio parlava, il giovane mosso da curiosità impugnò la spada e la tirò a sé. La lama non offrì la minima resistenza e scivolò fuori dal tronco.
– Ma…! Ma…!- balbettò il più anziano, stupito, mentre il giocane soppesava l’arma e la muoveva con naturalezza. Nei suoi occhi balenò un’improvvisa e subitanea decisione.
– Penso di aver capito, adesso – sussurrò il giovane. – Qui inizia la mia battaglia.

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