Sue Bryan, Beneath the Heavy Sky (Black & White Charcoal Landscape Drawing of Field & Sky), 2015

Pioggia

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I conati di vomito le avevano lasciato un dolore diffuso all’addome, risvegliando gli sgradevoli ricordi della marcia forzata via dalle Piane. Allora, il dolore l’aveva accompagnata come una zavorra. Come adesso, non riusciva più a capire se era fame, o il cibo avariato. O l’acqua. Bel regalo le aveva fatto Ushga. Stava pregando Elios, ma il cielo era gonfio di nubi ormai da giorni, e ancora nemmeno una goccia. Aveva finito la sua scorta, e poi bevuto l’acqua di quella pozza stagnante. Era un rischio, lo sapeva bene, ma la maledizione non le dava altra scelta. Si tolse la faretra che le impediva i movimenti e l’arco.

L’amaro che sentiva in bocca era anche qualcos’altro. Qualcosa che non sentiva da tempo, ma che era di nuovo familiare. Scacciando i ricordi che si affastellavano con il loro carico di dolore, si mise a cercare febbrilmente una pianta medicamentosa, qualcosa che potesse lenire gli spasmi, ma nella Scacchiera aveva ben poche speranze che vi potessero crescere quelle che aveva potuto studiare mentre era ospite nel Ducato di  Kharas. Era troppo asciutto.

Di nuovo venne sopraffatta da un fiotto di bile, accompagnato da qualcosa di molto peggio. Lo sapeva che non era solo l’acqua ad averla fatta stare male. I ricordi si moltiplicavano e si confondevano. La mente vorticava, confondendo presente e passato. Le era già capitato. Sperava di averli tenuti a bada. La meditazione, le preghiere ad Elios, i pellegrini che insegnavano con il sorriso. Ricordi belli, doveva cercare i ricordi belli, aggrapparsi a quelli, era l’unico modo. Non aveva più pianto dopo essere stata aiutata. Faceva sempre tutto da sola.

Un nuovo spasmo la costrinse carponi. Tutto vano, provava ancora le stesse sensazioni, i ricordi che pensava di essere riuscita a seppellire.  Lo sapeva che aveva deluso tutti, ma non poteva dirlo, a nessuno, l’avrebbero presa per pazza.

Si erano presentati di nuovo, nel momento peggiore. Rabbrividendo, si accovacciò sotto un albero, come a ripararsi dal nemico che aveva nella mente, nelle viscere.  Nella marcia per la Casella era rimasta volutamente indietro, nonostante la sua Masnada la volesse trasportare. Sperava di averli seminati. Era meglio se stava da sola. Meglio ancora se in mezzo alle piante. Meno male che non sapevano. Se i suoi compagni avessero deciso di abbandonarla, o peggio, li avrebbe capiti, le stessa non riusciva a perdonarsi. Il vento le soffiava in faccia la sabbia riarsa, graffiandole il volto.

Si rannicchiò su se stessa e si strinse i pugni forte sulle tempie. La testa le stava scoppiando. Era crollata nel pieno della battaglia. Di nuovo, era arrivata la scarica del terrore, i ricordi delle Piane risvegliati.  Odiava se stessa, il disgusto che provava per sé era più doloroso dei crampi.  Era ripartito tutto in quel luogo malefico, di quella cittadina maledetta. Le città erano il male. Nelle città aveva perso tutti i suoi cari. Lo sapeva che non sarebbe dovuta andare. Ma per Ottavia, per le Sorelle, se c’era da ammazzare gli imperiali, tutto valeva il sacrificio. Eppure, quando c’era stato da combattere nei sotterranei, era crollata. Di nuovo. Di nuovo la sensazione di chiuso, di buio, era tornata ad essere di nuovo bambina nelle Piane.  Non doveva piangere, non doveva piangere.

Le mani le tremavano di nuovo, la vista di nuovo offuscata.  La realtà confusa, come in un incubo. Non era riuscita a scendere in quel buio totale. Era rimasta a combattere come un succubo. Aveva addirittura colpito i suoi compagni d’arme. Di sicuro non sarebbe più stato tanto “habibi” dopo quella freccia infuocata nella schiena. Questo ricordo fu più doloroso degli altri. Si strinse forte i pugni sugli occhi e lasciò andare un lamento spezzato. Doveva avere la febbre, la testa le pulsava, si sentiva spossata e le scene che stava rivivendo erano mescolate in modo delirante. Le lacrime non vanno sprecate, le lacrime sono per le persone vive, le lacrime sono per gli amici. Amici. Forse erano davvero degli amici. Sì. Avrebbe spiegato tutto, e se l’avessero abbandonata l’avrebbe accettato. Glielo doveva.

Iena e Grizzly la trovarono mente stava balbettando scuse a un alberello che aveva scambiato per Ottavia, e si guardarono perplessi.

Iena guardò la situazione e commentò: “Non bisogna far bere ron a chi non è abituato. Questa vomita, io non me la carico in spalla. Se mai prendo l’arco e le frecce.”

Grizzly, con spirito pratico, sospirò uno “scoccia”, la raccolse senza fatica come se fosse stata una bambina e si avviò a recuperare il resto della Masnada. A Iena sembrava che ci fosse un ospitale lungo la strada, l’avrebbero recuperata al ritorno, se no c’era il rischio che  Cristilde potesse “sistemarla” definitivamente.

Le prime gocce di pioggia caddero vicino alle lacrime, sul volto dalle labbra atteggiate a timido sorriso di Feris.

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