PS: forse qualche corsivo in qua e là si è perso… beg your pardon!
Quello del circense è un lavoro girovago ed errabondo. Dagli anni in cui aveva iniziato a viaggiare con il circo di Desmond, aveva visto terre vicine e lontane alla sua casa natale, il piccolo borgo di Myrburg. Era cresciuto osservando le acque placide del fiume Myr nel loro limpido splendore; lui e gli altri ragazzi del villaggio andavano spesso a giocare in una delle anse del corso d’acqua, dove la corrente si faceva più rapida e turbolenta, e si divertivano a nuotare in quei punti dove il flusso era più violento. Gli piaceva sfidare i pericoli che l’acqua offriva, lo faceva sentire forte. Poi la storia prese il suo corso, gli eventi lo spinsero ad unirsi a quel branco di amati scalmanati con cui visse per quasi dieci anni, ed Alehandro Maquìn’daar fu condotto in posti che prima aveva sentito solo nei racconti di suo zio Franklin. Vide foreste incontaminate, monti imponenti, paesaggi sconfinati, i suoi occhi ammirarono bellezze che poteva solo immaginare fino a quel momento. E poi c’era il mare.
Cambiavano le spiagge, gli scogli, le scogliere, ed anche il mare che vedeva non era mai lo stesso: quando calmo e pacato come una distesa di velluto, quando agitato e turbolento, quando spumoso nel suo balletto con i venti. Alehandro non si soffermava mai troppo sui suoi pensieri, in quanto preferiva agire d’istinto che ragionare troppo e inutilmente; solo che il mare, tutta quell’acqua, lo infastidiva e lo irritava. Troppo, troppo grande e troppo vasto, non si riusciva ad abbracciarlo neanche in uno sguardo solo, e questo proprio non gli andava giù. Non lo concepiva, che potesse esistere qualcosa su cui, con tutti gli sforzi del mondo, non avrebbe mai potuto influire, operare un cambiamento. La terra la puoi scolpire, e con secoli di lavoro anche le montagne potevano essere rase al suolo, ma l’acqua… Non si poteva neanche afferrare, e non aveva neanche forma!
Tutte le volte il rituale di Alehandro era sempre lo stesso, e gli altri membri del circo lo osservavano divertiti. Quando arrivava in riva al mare, con gesti rapidi e nervosi, si toglieva gli stivali, i calzari, arrotolava l’orlo dei pantaloni sopra il ginocchio e immergeva i piedi in acqua; ogni tanto tirava calci alle onde, alzando grossi spruzzi d’acqua che lo infradiciavano completamente. E non c’era freddo, vento o tempesta che lo potessero far desistere dalla sua sfida personale, dal suo voler affermare "questo sono io, mare, ricordami".
E ormai in pochissimi si possono ricordare quell’episodio, l’evento con il quale il circo rise per anni. Un giovane alemarita silenzioso, dai ricci folti come la tenebra e dallo sguardo malinconico, era stato affidato da poco alle cure di Desmond, che aveva subito girato il compito ad Alehandro. Il ragazzo si chiamava Dahal e, per quanto mostrasse di apprezzare le cure che tutti i circensi gli offrivano, permettendogli di esprimersi al meglio delle sue possibilità, era sempre molto riservato e solitario. Quando giunsero su quella spiaggetta nella contea di Trelven erano solo di passaggio, ma Alehandro era ostinato su questo punto: appena arrivava al mare, doveva fare il suo rituale. Smontò dalla cassetta del carro, buttò quasi con rabbia da una parte stivali e calzari e saltò furiosamente nella risacca della prima onda che gli arrivò, per poi avanzare fino a che l’acqua non gli lambì le ginocchia. Rimase lì qualche istante, come al solito, prima di iniziare la sua lotta personale, quando all’improvviso il sole gli colpì violentemente gli occhi costringendolo a girarsi, e lo vide. Dahal era lì sulla spiaggia, silente ed obbediente, che con estrema gentilezza stava riprendendo i possessi di Alehandro affinché la sabbia non li riempisse troppo. I suoi occhi, eppure, erano incollati su quell’azzurro intenso e scintillante, agitato e inquieto come il suo animo. Si stava specchiando in esso, e la sua mente si stava perdendo nei ricordi; un velo triste e melanconico era pronto a calare immantinente su di lui, facendogli perdere la bellezza di quella visioni. Alehandro non si soffermava mai troppo sui suoi pensieri, in quanto preferiva agire d’istinto che ragionare troppo e inutilmente; fu così che uscì dall’acqua e si incamminò verso Dahal in silenzio, accompagnato solo dal dolce rombo del mare. Il giovane alemarita quasi non si accorse quando il suo robusto compagno lo afferrò di peso e se lo caricò sulle spalle senza troppe cerimonie; iniziò a scalciare, a urlare a protestare, mentre l’altro tornava nella direzione da cui era venuto. Si fermò solo un istante, poi con un urlo da belva si gettò in acqua di corsa, trascinando l’altro con sè e lasciando tutti di stucco. Quando i due scapparono fuori dall’acqua erano interamente fradici, gli abiti zuppi d’acqua salata, tra le risate generali. Dahal, ancora stupito per come era stato buttato in acqua, provò ad abbozzare una vaga protesta, che fu subito messa a tacere da Alehandro, che colpì l’acqua a mano aperta schizzandola addosso al ragazzo. Fu a quel punto che il giovane reagì: a sua volta, prese l’acqua a piene mani e la tirò addosso all’altro. Quella che si scatenò fu una delle battaglie più furiose che la storia avesse mai visto; mentre i due continuavano a gettarsi addosso ondate d’acqua senza fermarsi un solo momento, gli altri se la godevano pienamente, ridendo di gusto. Il mare, tranquillo, si limitò ad ospitare i due finché non furono troppo stanchi per continuare.
Il giorno dopo, avevano la febbre tutti e due.
Aveva appena messo il naso fuori dalle mura e già si sentiva mancare il fiato. Era la prima volta che Loupelee lasciava Scentiar, la prima volta che si allontanava dal molo, dai vicoli, dai fastosi palazzi nobiliari e dalle casupole sudice e cadenti della sua città, e per la prima volta il suo sguardo si posava coscientemente sulle ampie distese di terra coltivata, prati, colline, fino ad arrivare alle sagome inedite dei monti lontani, giganti sconosciuti e pericolosi che si stagliavano in un orizzonte polveroso.
Tutto molto interessante, certo. Dopotutto, c’era gente che viveva costantemente immersa in questo scenario continentale, e chissà in quanti altri modi il paesaggio si sarebbe trasformato dinanzi ai suoi occhi. Lo sapeva, si era informata bene prima di lasciare la sua casa, aveva cercato di farsi un’idea di ciò che l’avrebbe attesa per potersi preparare al meglio per il viaggio che l’avrebbe condotta all’altro capo del mondo.
– Madame, che vi succede? Sembrate allarmata.
– Pensa a guidare il carro, Martin. Questa strada è piena di buche.
– Ehm, certo, Madame. Scusate.
Aveva la nausea. Per un attimo ebbe timore che si trattasse dell’emozione, e che se la stesse facendo sotto dalla paura. Eppure sapeva cosa stava facendo e perché, e niente e nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Dunque? Perché qualcosa le premeva forte sul petto? Perché si sentiva lo stomaco stretto in una morsa? Perché sembrava che la testa le volesse esplodere, come se, come se…
Dei del cielo. Ecco cos’era. Il silenzio.
Da dove si trovava adesso non si sentiva più il rumore del mare.
Nelle fogne in cui era nata e dove era vissuta, nel suo bordello, in ogni angolo di Scentiar il mare era una presenza costante. La sua voce poteva diventare un brontolio sommesso, una ninna nanna affettuosa, un urlo raccapricciante o un canto d’amore e morte, ma era sempre presente, che sussurrasse appena la sua storia o che squassasse con fierezza le orecchie delle minuscole formiche che si agitavano presso di lui. E per lei, che aveva sempre vissuto sul molo, là dove solo una misera striscia di pietra teneva separate le fragili vite umane dall’immane potenza dell’acqua, il mare era stato il primo vero amico, che l’aveva cullata per tutte le notti della sua vita, sia quelle trascorse nelle fogne (e allora la sua voce riecheggiava morbida attraverso i cunicoli immersi nell’oscurità), sia nelle ore di veglia passate alla finestra della sua stanza al secondo piano, un luogo intimo e privato riservato a lei soltanto, nel quale nessuno aveva mai avuto il permesso di metter piede. Da lì, si vedevano solo il mare e le vele delle navi che ogni giorno scivolavano accarezzandone la superficie, sperando nella sua clemenza.
Dov’era adesso, quel mormorio rassicurante? Dov’era l’indefinita linea dell’orizzonte? Dov’era l’odore penetrante di salsedine? Dov’era il mare?
– Ehi, Martin… ma la traversata si svolgerà tutta nell’entroterra?
– Ma certo, Madame… è il modo più veloce per raggiungere i Ducati… io vi do un passaggio fino alla Capitale, poi voi dovrete cavarvela da sola fino a…
– Sì, sì, ho capito. E senti… Drakvall è sulla costa?
– Non credo, Madame…
– E quanto ci vorrà per arrivare lì?
– Ve l’ho detto, Madame… viaggiando spediti, in cinque o sei mesi…
– Dannazione…
– Avete detto qualcosa?
– Ho detto pensa a guidare il tuo carro. Veloce.
Martin la fissò un po’ sconcertato per alcuni attimi, poi si voltò e si concentrò alla guida, senza più rivolger la parola alla sua bizzarra passeggera.
Loupelee si asciugò il sudore dalla fronte, reprimendo un conato di vomito, e pregò la Bella Signora perché la facesse abituare presto all’enorme senso di vuoto che cresceva in fondo al suo stomaco e che a malapena era mitigato dalla vaga consapevolezza che la meta in fondo a quel viaggio e a quel distacco era tutto ciò per cui valeva la pena di vivere.
FÜR DIE FREIHEIT UND DIE HERRSCHAFT”
Mentre leggeva il bando, la cui pergamena pesante occhieggiava ai passanti da ogni bacheca pubblica e dallo stipite di ogni taverna di Mordian, Nihal inarcò le sottili sopracciglia in un’espressione di annoiata sufficienza.
“Quei tediosi, pomposi, effeminati Luskan … “
Sputò in terra in segno di disprezzo.
“… chiamerebbero persino la madre rinsecchita in portantina a difendere i loro viscidi interessi pur di risparmiare qualche spicciolo.”
Scimmiottò per un istante il fare solenne dei banditori “… aurea egida ventura … Bleah!”
E sputò di nuovo a rimarcare il suo disappunto.
Melisenda le camminava accanto, pilotandola con fare esperto tra i vicoli della città, sorrise ironica dietro gli occhialini scuri al commento dell’elfa che seguiva le sue indicazioni con fare spavaldo, ostentando indifferenza al turbinio di viuzze e persone. L’acuta veggente, tuttavia, sapeva sin troppo bene che senza la sua guida la selvatica arathiana si sarebbe persa in meno di un minuto.
“Su su … muoviti Nihal, altrimenti ci perderemo l’imbarco sulla ‘Ninfa’ del Capitano Ebron.”
“Ecchissenefrega …”
Ruggì astiosa, manifestando tutta la sua insofferenza ad orari e tabelle di marcia, ma ugualmente allungò la falcata seguendo Melisenda che l’aveva distanziata già di qualche passo.
La folla del centro della capitale di Trelven sembrava lentamente diradarsi man mano che si addentravano nei vicoli che conducevano al porto, così come sembrava scemare il colorito miscuglio di odori composto tanto di spezie, essenze e pietanze esotiche quanto di marciume ed urina spruzzata sui muri, che colpiva con violenza il delicato olfatto di Nihal.
Ora che i passi della veggente la conducevano lontano dai mercati e dalle urla, le sue orecchie appuntite riuscivano a distinguere suoni nuovi … la nenia di una mamma che allattava un’infante sulla soglia di casa, il cigolio di un carretto che trascinava il suo carico ai moli ed il richiamo allungato di grossi uccelli che planavano candidi negli spicchi di cielo tra i tetti delle case.
All’improvviso lo udì.
Ogni suo muscolo si allertò e con scatto felino afferrò Melisenda davanti a se trascinandola nella polvere al riparo di un basso muretto diroccato.
Premeva la mano sulla bocca dell’attonita sacerdotessa che si agitava cercando inutilmente di liberarsi dalla stretta.
“Ssscccchht!”
Intimò secca la guerriera che, con l’espressione di un animale braccato, tendeva al massimo i sensi nel tentativo di identificare lo spaventoso e roboante latrato intermittente che come il respiro pesante di una belva immensa la minacciava da una distanza che, tuttavia, valutò relativamente sicura.
“Ma cosa diavolo fai, zuccona di un’arathiana!!!”
Protestò con veemenza Melisenda, approfittando del progressivo rilascio della guerriera.
“Non senti questo … questo … ruggito?”
Sussurrò ancora sospettosa l’elfa con la mano allo spadone.
Melisenda la guardò per un istante con sincero stupore: <<Ma certo!>> si disse <<La voce del Mare … non l’ha mai udita.>>, si tirò in piedi, schiaffeggiandosi la polvere dalle vesti con aria stizzita.
“Vieni, vieni con me, ignorante di una mulina-spade”
Incoraggiata dal fare sicuro di Melisenda, Nihal si rialzò, tenendo in mano lo spadone, e la seguì fino al margine della viuzza dove una ringhiera malconcia apriva la visuale tra le casupole.
“Ecco la tua pericolosa fiera ..”
Dichiarò vagamente divertita Melisenda quando si offrì al loro sguardo il panorama del golfo di Mordian.
Nihal sgranò gli occhi e socchiuse le labbra per lo stupore: l’immensa distesa blu riempì l’orizzonte in modo quasi intollerabile, nessun bosco nessuna foresta che avesse mai visto poteva rendere il senso di vastità che le si schiudeva innanzi.
Per quanto sforzasse la vista acuta abbacinata dal sole non riusciva a scorgere la fine di quell’immensità pulsante e sinuosa, come un enorme prato azzurro carezzato dal vento.
La brezza portava un denso profumo salmastro, straniero, pungente.
Navi di tutte le dimensioni galleggiavano tronfie e pacifiche nei pressi dei moli che, come dita rachitiche, si diramavano da ogni punto visibile della costa.
Nihal si ricompose velocemente.
“… il mare.”
Concluse seccata, consapevole di aver fatto la figura dell’ingenua montanara.
“Già!”
Rispose con un sorriso sardonico Melisenda.
“Possiamo andare ora?”
Chiese la veggente più divertita che infastidita, e senza attendere la risposta riprese il suo cammino sostenuto, seguita da Nihal trincerata nuovamente dietro un maschera d’indifferenza.
Guardava Melisenda trotterellare agile per le vie, ma con l’anima ancora colma d’azzurro non riusciva a capacitarsi dell’inutile bellezza del creato.
Il piccolo scafo si discostava lentamente, spinto dalle poderose vogate dei rematori. “Torna presto, amore!” gli aveva sussurrato all’orecchio la sua amata pochi momenti prima che si imbarcasse. “Presto… sì, presto! Il prima possibile, amore mio” si ripeteva lui, osservando le grigie pietre del porto allontanarsi sempre più di poppa, mentre in fondo al frangiflutti Rosminta agitava un fazzoletto bianco in segno di saluto. I remi dei vogatori si alzavano, per poi tornare a immergersi con un ritmo perfetto, una sinfonia di gorgogliante acqua, accompagnata dal rumore del martello che batteva sul tamburo. In pochi minuti la Ninfa dei flutti uscì dal ridosso della terra ferma, i rematori ritirarono le loro pagaie, e i marinai spiegarono le vele; superata l’insenatura la nave sentì in pieno la spinta possente del mare, le vele si gonfiarono e la Ninfa dei flutti cominciò a volare sull’acqua come una libellula, balzando da un’onda all’altra. Misha sollevò il volto verso il mare aperto, accogliendo con gioia i raggi del sole che gli scaldavano le guance, mentre le sue vesti schioccavano gonfiandosi al vento; si avvicinò lentamente alla murata, osservando le onde spumeggiare come vetriolo sulla storta, respirando profondamente l’odore salato dell’immensa distesa d’acqua. Il capitano apparve sulla tolda e dopo aver impartito qualche ordine si rivolse all’alchimista “Mastro Misha… siete fortunato, il vento ci è favorevole, di questo passo raggiungeremo Dolphield in meno di una dozzina di giorni” Misha si voltò verso l’uomo, un colosso alto quasi due metri, l’ampio torace ricoperto da un folta peluria scura come la notte. “La notizia mi allieta, capitano Muntan, ma non risparmiate comunque i vostri uomini, il mio arrivo a Dolphield è della massima urgenza! Riceverete un compenso maggiorato di 50 corone d’oro se di giorni ne impiegheremo otto anziché dieci!”. L’ampio sorriso che si aprì sul volto bruciato dal sole e seccato dalla salsedine del lupo di mare lasciò pochi dubbi sull’efficacia di quel piccolo incentivo, ma di questo Misha non aveva certo dubitato. Quando raggiunsero le acque aperte il vento cambiò, rinforzando fino a divenire una roboante bufera, il mare divenne agitato, di un verde cupo e minaccioso; Muntan camminava avanti e indietro sul cassero, in perfetta sintonia con il rollare della nave, urlando ordini ai propri marinai che bestemmiavano per l’eccessiva foga del loro capitano. Al calar del sole, mentre all’orizzonte l’acqua si tingeva di rosso e arancione, Misha raggiunse la prua della nave, esponendo il volto alla fresca brezza di mare, chiuse gli occhi e cullato dal dondolare della Ninfa dei flutti, si lasciò catturare dai ricordi di quegli ultimi intensi anni…
Dapprima pensò a una tempesta di sabbia. Ma era un’idea stupida, se ne rendeva conto. Le avevano raccontato che si sarebbe trovata davanti un’immensa distesa d’acqua e di certo la voce del vento che soffiava nel Deserto non poteva aver nulla a che fare con le onde del mare increspate dalla brezza.
Eppure il rombo che proveniva da poco distante, l’odore pungente di alghe decomposte sugli scogli, lo stridio dei gabbiani intenti alla pesca, tutto in qualche modo le ricordava casa sua, dove l’acqua era quasi inesistente e nessun uccello osava gridare nel cielo.
Rallentò il passo, inerpicandosi attentamente fra le dune rocciose immerse nei ciuffi di una bassa e fitta vegetazione, riarsa dal tiepido sole invernale, tenace e testarda nel suo proposito di non venir divelta né dalle mani dell’uomo né dal passaggio impetuoso del vento. Quando le sembrò di aver raggiunto il ciglio della scogliera, allora smise di fissarsi i piedi e alzò lo sguardo. Immediatamente il respiro le sfuggì dalla gola.
Era abituata all’idea di non poter abbracciare la vastità di ciò che la circondava, conosceva il senso di vertigine e malessere che prendeva a chi cercava concepire l’immensità di ciò che aveva intorno, aveva ravvisato il terrore e il delirio negli occhi dei rari viandanti tratti in salvo dalle sabbie del Grande Padre, resi completamente folli dal sole e dall’inconcepibile omogeneità delle dune, sempre diverse ed eternamente uguali a se stesse.
Ma quello, oh, quello!
Quella distesa argentea lacerata di schiuma bianca, che scompariva e riappariva di continuo, seguendo un misterioso e caotico arabesco impossibile da decifrare, che percuoteva la scogliera come se avesse centinaia di mani, tutte adirate per qualcosa di diverso, e poi si ritiravano, rabbiose, solo per scagliarsi nuovamente contro alla roccia, instancabili e implacabili.
Acqua. Non sabbia. Acqua. Acqua fin dove si poteva guardare. Acqua che turbinava e nascondeva insidie, pericoli e tesori inestimabili, acqua che custodiva gelosamente la sua identità e i suoi figli, e era pronta a punire coloro che avessero sfidato la sua incontestabile maestà.
Mel’Ishnd discese lentamente lungo un minuscolo sentiero sul versante della scogliera, quasi senza guardare dove metteva i piedi. Scese finché non si ritrovò in una piccola insenatura sabbiosa fra le pareti di roccia, lambita da onde più discrete, ma ugualmente tenaci. Gli stivali affondavano lentamente nella sabbia umida, che cedeva sotto il passo della veggente. Si fermò sulla battigia, e le onde arrivarono a lambire le sue calzature, mentre il vento rompeva la cresta della schiuma, ululando fra gli scogli, rivaleggiando in intensità con il fragore di quell’incredibile massa d’acqua in movimento. L’orizzonte, da lì, era invisibile, mescolato ad una coltre di nubi impenetrabili che annunciavano la bufera. Eppure, a ovest, brandelli di sole sanguigno si preparavano a gettarsi fra la foschia, incendiando l’acqua.
Le avevano detto che il tramonto sul mare era qualcosa di romantico e struggente. Beh, quello non lo era di certo. Era una guerra. Il vento, l’acqua, il sole, la sabbia, il cielo, le nubi, il vuoto, il pieno, l’eterno, l’instabile, l’immensamente grande e l’immensamente piccolo, ognuno lottava per imporre la sua identità sul resto, e il risultato era… quello.
Si accovacciò sul bagnasciuga, lasciando che l’acqua le scivolasse sulla pelle, trascinando con sé la sabbia che stringeva fra le mani. L’odore era stridente e penetrante come tutto il resto.
Respirò profondamente, quasi con le lacrime agli occhi.
Acqua e sabbia e vento e cielo e sole e nubi e rabbia e pace e morte e vita.
“A casa. Sono di nuovo a casa.”
Miralys osserva le affollate strade di Mordian. L’aria è umida, salmastra, quasi soffocante e le genti che percorrono quel suo stesso tragitto sembrano quasi toglierle l’aria. Intorno i diversi odori quasi la stordiscono, incensi, spezie, profumi, pesce appena pescato, che si uniscono assieme a quelli meno piacevoli delle viscere dei pesci, del sudore dei mendicanti e degli odori dei piccoli vicoli sporchi di Mordian. Al porto era questa la vita, un insieme di colori ed odori uno opposto all’altro; Miralys passa quasi soffocata tra quei banchini, cercando di coprirsi il viso con il leggero scialle, per mitigare i forti odori che le fanno girare la testa e le tolgono l’aria. Pian piano la folla scema, non si sa per quale motivo mentre delle piccole scale, delimitate da alti muri, si delineano nel cammino della giovane sacerdotessa. Si avvia, pian piano, per le piccola via, i cui muri sono coperti di piante di cappero e di gramigna, che crescono ricoprendo il muro fatto di pietre accatastate una sopra l’altra.
Scende, osservando le piccole scale deserte, finché non ne arriva in fondo. All’inizio rimane accecata dalla luce del sole che ora sembra batterle direttamente sugli occhi, ma pian piano gli occhi nocciola si abituano alla luce mentre una mano si posa sulla fronte, come per parasi leggermente dal sole. Gli occhi di Miralys si spalancano dalla sorpresa mentre la bocca si dischiude in un piccolo sospiro di sorpresa. Il mare…non lo aveva mai visto…Arath, o almeno nella regione in cui lei viveva, era prettamente montuosa e collinare e non aveva mai visto il mare. La piccola spiaggia sembra brillare d’oro sotto l’astro del Divino Elios, mentre l’acqua riluce del suo accecante splendore. Cerca di avvicinarsi ma i piedi cominciano ad affondare nella sabbia e le scarpe si riempiono dei piccoli e fastidiosi granelli. Si toglie le calzature e con i piedi finalmente nudi, li affonda nella sabbia tiepida, mentre la polvere massaggia le stanche estremità. Cammina verso l’acqua, mentre la brezza marina l’avvolge in un fresco abbraccio, portando lontano lo scialle, scompigliandole i morbidi capelli scuri, che ora viaggiano tra le spire giocose del vento, mentre lo scialle, ora caduto in acqua, viene trasportato dalle onde. Fa un respiro profondo, mentre cammina piano, gustandosi il tepore del sole e della sabbia sottostante. Le onde si increspano, fino ad infrangersi delicatamente sulla morbida riva. Si siede sulla sabbia asciutta, prendendo tra le mani quei piccoli granelli e lasciando che essi cadano pian piano dalle mani. Come assomigliano alla vita umana…piccola, insignificante di fronte all’universo così immenso, effimera nella velocità in cui il piccolo granello cade in mezzo agli altri…ciononostante se non fosse per ognuno di quei piccoli granelli, non ci sarebbe la spiaggia…un insieme di piccoli pensieri, che vanno uno sopra l’altro, come nella mente umana. Scuote la testa, come per ridestarsi dai suoi pensieri, per osservare il moto ipnotico delle onde e il loro suono scrosciante. Pone lo sguardo verso l’orizzonte, mentre il mare di un blu intenso sembra rilucere sotto l’astro solare. Si alza, e scrollandosi i granelli di sabbia asciutta di dosso, per correre verso la riva, posando i piedi sulla sabbia bagnata, mentre le onde sopraggiungono bagnandola con acqua fredda. La giovane sacerdotessa sorride, sembra non farci caso e si china per toccare con le mani la superficie dell’acqua, per poi rimanere lì, a rimirar l’acqua.
Fino a quando i piedi e il cuore non lo portarono altrove, la sua linea dell’orizzonte era sempre stata oscura e frastagliata. Si alzava dal suo letto, quando i deboli raggi del sole lo strappavano dal sonno, e si incamminava verso la finestra lentamente, a piedi scalzi, per guardare fuori. Jorge glielo ha fatto notare più di una volta, questo vizio di mettersi in finestra e osservare rapito il mondo all’esterno, e Noctulis gliene ha sempre reso atto. È vero, ma chissà se guardava fuori o dentro di lui.
In quei giorni lontani, nella sua casa natale, l’orizzonte era quasi sempre nascosto dalle alte fronde degli alberi verdeggianti, quasi a voler celare che esistesse un mondo all’infuori del villaggio, all’infuori di essi. Quei pochi sprazzi di vista che concedevano rivelavano il profilo cupo e discontinuo dei monti, gelidi e ineffabili guardiani della prigione che era il suo mondo. “Questi sono i tuoi limiti”, volevano dire, “e tanto ti deve bastare”. Il giovane provava a immaginarsi cosa mai esistesse all’esterno di quella gabbia rocciosa, nascosto ai suoi occhi, e passava ore a immaginarsi scenari da favole, ampie praterie incontaminate per far scorrazzare la sua fantasia di bambino. Poi, un giorno, un vecchio diavolo lo strappò alla sua vita, alle sue piccole certezze, e lo portò con sé oltre quell’orizzonte, lontano fin dove solo la sua immaginazione l’aveva condotto, ed adesso era lì, lui, di persona. Quelle montagne non erano più un carcere, ma una nuova esistenza da esplorare, mentre l’orizzonte si allontanava ancora e ancora, finché ad un certo punto sparì.
Da quello che Jorge gli ha raccontato, fu un’epifania. Uscirono dalla fitta foresta vicino alla loro futura dimora, e Noctulis se lo vide sbucare davanti all’improvviso. Come poteva una cosa così grande rimanere nascosta in qualsiasi modo non lo sapeva, eppure riuscì a farsi cogliere impreparato, alla sprovvista.
Il mare si estendeva innanzi a lui, gigantesco, infinito. L’alta torre di roccia, le scogliere ripide del promontorio, la bianca sabbia della spiaggia, tutto chinava il capo alla sua maestosità, come umili servi innanzi al loro sovrano. Le onde impetuose schiaffeggiavano la terra violentemente, per affermare il loro primato, ed esplodevano in conflagrazioni di schiuma bianca. Il suo grido riempiva le orecchie e la testa, per poi svuotarli come un’onda di risacca, lasciando solamente un genuino stupore negli occhi. E di quella meraviglia Noctulis se ne nutrì per tre giorni e tre notti, come se solo quella visione impressionante lo sostentasse. Osservò la tinta lugubre del mare notturno, quando la distesa acquatica sembrava una scura superficie impenetrabile in cui a sprazzi apparivano giocosi nastri d’argento, il saluto rispettoso delle onde alla dolce luna. Gioì con lui all’alba festante, quando il cielo va a fuoco e il mare, placido, saluta delicatamente il nuovo giorno; si esaltò alla furia cocente del sole, quando l’intero mare pare diventare bianco sotto i suoi raggi implacabili mantenendosi eppure fresco e rinfrescante. Si unì alla malinconia del tramonto, quando il disco solare vira al rosso, tingendo di pallide tinte rosa e violacee il cielo, e il mare acconsente tristemente di farlo riposare in sé, nelle sue smisurate profondità, culla di nascoste delizie e tenebrosi incubi. No, non c’era alcun rispetto in quello che il mare gli stava facendo; era un vero stupro, si sentiva la mente aperta in due, e poi nuovamente riempita di tutti i sogni che a lungo aveva coccolato e a cui mai aveva permesso di vedere la luce. Quell’orizzonte era una linea piatta e distante, talmente lontana da far girare la testa, eppure non era un limite. Quelle non erano sbarre di una prigione, ma finestre da cui gettare lo sguardo verso l’infinito, verso i regni dell’impossibile e dell’inimmaginabile. Il mare lo aveva rapito per tre giorni e tre notti, e gli aveva regalato la consapevolezza della sua dimensione e di quella del mondo; lo aveva carezzato, e poi picchiato, e poi adulato, e poi percosso. E Noctulis ne era totalmente estasiato, ogni sguardo era uno schiaffo e un bacio alla sua immaginazione e alle sue ambizioni. Avrebbe vissuto lì per quindici anni, se ne sarebbe andato, e poi sarebbe ritornato in riva al mare per continuare la sua storia, e forse un giorno concluderla, ma non passò mai un giorno che, anche se per un solo istante, quella immensa distesa rapisse inconsapevolmente il suo sguardo.
E’ assolutamente e incredibilmente splendido.
Amo il mare, è una passione viscerale la mia, e ora vedere tutte queste persone rimanere ad occhi aperti di fronte a lui è fantastico.
Alehandro è sempre il solito e fa davvero ridere immaginarselo con Dahal ad infradiciarsi come un bambino. Dahal che ride è un avvenimento talmente raro che mi pare un miracolo. Lo sento sempre così malinconico e nostalgico…
Nihal è grandiosa, troppo simpatica la sua gaffe! Ma infondo aveva ragione a temere il mare. E’ pericoloso, per alcuni può significare vita ma per altri è morte. (brr, frase in tedesco a inizio paragrafo. Brr…)
Loupelee mi ha molto colpito, è riuscita a rimanere altera anche in una situazione del genere. Che donna!
Melisenda… beh Melisenda è Melisenda! (ormai l’avete capito tutti che ho un’adorazione particolare per i personaggi di mamma e Noctulis…) La vedo sempre più serena ultimamente, e non ci sono abituata. E’ un po’ inquietante la cosa.
Mastro Misha m’ispira una simaptia incredibile, ma non so molto bene cosa dire su di lui, lo conosco pochissimo… uffa.
Myralis è una grande. Tutto il post mi piaciuto moltissimo, e l’ultima frase che va a riprendere anche la conclusione del post di Mela è stata magnifica.
Noctulis mi ha fatto tenerezza. I pensieri nonhanno una profondità particolare ma ti catturano. Dovrò farmi dare lezioni di scrittura dal caro Frank, sìssì.
Grazie, Animaeali:)
La cosa buffa è che almeno io non avevo letto gli altri pezzi fino ad ora 🙂
ognuno ha fatto il suo pezzo senza vedere quello dell’altro, penso 😀
O.O
*è stupita*
Io sono l’unica ad averli letti tutti in anteprima, ma i miei li ho scritti prima che mi arrivassero gli altri! 😀
Direi che come primo esperimento è andato più che bene, no? 😉
guarda che prima Dahal era un ragazzo felice quando aveva la sua esmeralda e non era a conoscenza di Desmodar o i 4 (oramai 1!!!) re del sole nero… e poi… ancora dovete vedere il nuovo Dahal!
il mitico e unico poeta! ;P
direi di si, anche se la sottoscritta vi ha fatto penare non poco…sigh…
-_-”
Comunque sono davvero belli 🙂
Quello della Mulina spade mi ha fatto ridere a crepapelle 😀
Anche quello di Alheandro è Dahal(Xalad, boh!) è bellissimo:)
oddio, mi sono piaciuti tutti, ad essere sincera @_@
Poeta: sì però ora hai sempre il broncio.
;PPPP
uff… ora perchè è xaladh ma prima poteva essere triste anche se cercava di apparire il più sereno possobile in game!;)
Bambini, prendiamoci tutti per le manine e diciamo in coro: “Quanto siamo bravi!”
Dahal escluso. Lui no. Lui brutto e puzza.
X animaeali: macchè lezioni! Ognuno ha il suo stile (come da queste pagine si può tranquillamente evincere), quindi veniamo TUTTI a farti lezione! E dopo anche tu fai lezioni a noi! Il piano è ok?
mi sembra perfetto 🙂
Un piano azzolutamente perfetto, bwahahahahahahah
Però diciamocelo che a ‘sto giro Dahaluccio non ha mosso un ditino e ha fatto fare tutto al suo amico Alehandro… PIGRO!
Sììì! Tutti voi a dare lezioni a questa narratrice idiota!
Grazie!!! °u°
animaeali
Concordo: l’esperimento è riuscito 🙂
E’ stato divertente osservare le diversità d’approccio dei vari personaggi rispetto allo stesso argomento :).
A me ha dato l’occasione di ‘sdrammatizzare’ la figura di Nihal, che appare buffa e decisamente fuori luogo, d’altra parte non è una che ama le sorprese :P. Alla faccia dei guerrieroni tutti muscoli che sanno sempre cosa fare :DD.
x Myra: esci dall’acqua sennò ti ammali!!!!!!!!
Chi? io? ammalarmi? ma se ho una salute di ferro!!!!
Ettettchiùùùùù
Sniff sniff
Etttchiùùùùùù
Beh, intanto iniziate a pensare se c’è qualche altro argomento su cui vi piacerebbe organizzare un post collettivo, che fra qualche mese ripetiamo l’impresa… 😀
Miralys è malaticcia ma dura come una roccia!!!!