“L’ho visto… È lui, sì. Ormai ne sono certa. Ho avuto finalmente la conferma!”
Son già trascorse quattro lune dal mio arrivo a Ramana, dove lo vidi per la prima volta, e mi resi subito conto di esserci legata in qualche modo, percepii immediatamente una particolare connessione. L’istinto mi diceva di correre verso di lui, il mio sesto senso diceva “L’ho trovato!”.
Ma… Avevo paura. Ho paura.
Qualcosa dentro di me si agitava, come se un ricordo stesse cercando di emergere. Sarei corsa da lui, gli avrei parlato e raccontato tutto ciò che è successo in questo tempo.
…In realtà, non potrei agire in alcun modo… Maledetto vincolo!
“E se non fosse lui?”, pensavo. Mi trovai spesso a scrutare il suo volto, a osservarlo, cercando dettagli in più a conferma di questo dubbio divenuto nel tempo quasi certezza, ma sapevo benissimo che non era altro che un procrastinare, in attesa di un momento per dialogare che mai sarebbe giunto.
Sono ormai trascorsi undici interminabili inverni dall’ultima volta che ci siamo visti, nonostante ciò ricordo quel giorno come se fosse ieri. Chissà quante cosa sono cambiate, cos’ha vissuto, cos’ha imparato, chi ha conosciuto… Chissà se si ricorda ancora di me.
Due lune fa arrivammo a Palazzo Alicante, e proprio qui ebbi la certezza assoluta che eliminò ogni sospetto!
Lo vidi, poco prima della lizza coi Berretti Rossi, allontanarsi e togliersi lentamente il copricapo che indossava, mai visto prima d’ora. Lo tenne tra le mani per un attimo, lo sguardo perso, contemplando probabilmente qualcosa. Poi, con un gesto deciso, lo lasciò a terra per tornare da noi. Il vento ne sollevò appena i lembi e ciò mi permise, in lontananza, di notare qualcosa ricamato sopra, qualcosa di familiare. Incuriosita, mi allontanai di soppiatto per non dare nell’occhio e raccolsi l’indumento per osservare più da vicino il simbolo.
Ciò che vidi mi diede le vertigini, il cuore ebbe un lieve sussulto come non accadeva da tempo.
Avrei riconosciuto quell’araldica tra mille!
L’ultima volta che la vidi fu proprio un decennio fa, prima dell’inizio di quest’incubo. Sentii immediatamente un brivido correre lungo la schiena, una sensazione malinconica e struggente. Quel ricamo… Simbolo di un’infanzia ormai lontana, di un ricordo sbiadito nel tempo. Stavo lì, immobile, persa in quel mare di reminiscenze, una burrasca di memorie che mi travolse in pieno.
“Ma allora…”
Iniziò il duello.
Tornai in me, rimisi la pellegrina al suo posto e mi riunii agli altri per assistere ai combattimenti.
La prima cosa che notai fu il suo modo di impugnare la spada. Era identico, non avrei mai potuto confonderlo.
Il suo sguardo fisso sull’avversario, quasi fosse estraniato dal mondo. Sguardo pieno di rabbia, simile a quello dei nostri ultimi momenti assieme, ma più intenso di quanto ricordassi.
Riconobbi la sua tecnica, il suo impeto, la sua audacia. Combatteva con foga, lo faceva soprattutto per i suoi compagni. Ma io, che lo conosco come la mia bisaccia, sapevo che ogni colpo di spada era colmo di rispetto verso il suo avversario. I suoi movimenti erano decisi, ogni parata o affondo riflettevano la volontà di proteggere non solo chi lo circonda nel presente, ma anche per proteggere le memorie della sua famiglia, del sudore e del sangue versato.
Osservandolo in combattimento, riaffiorarono alla mente i ricordi di quando a sei anni cominciai a fuggire di casa per assistere furtiva ai suoi allenamenti, a cui ovviamente non mi era concesso presenziare. Mi nascondevo sempre dietro alla siepe che delimitava il campo di allenamento e stavo lì, ad osservare con curiosità e ad ascoltare il suono della spada che sferzava l’aria e il legno dei fantocci, il tutto mescolato al canto degli uccelli e al fruscio del vento tra le foglie.
Una situazione un po’ paradossale… Mi sentivo come una piccola spettatrice di un dramma che si stava preparando a svolgersi, consapevole che ciò che vedevo era solo un assaggio del coraggio e della determinazione necessari per affrontare il futuro. Nonostante questa consapevolezza, ero felice. Forse riuscivo, involontariamente, a godermi il presente.
Al crepuscolo, terminato l’allenamento, aspettavo che venisse a recuperarmi dietro la siepe per avviarci assieme verso casa. Percorrevamo un sentiero costeggiato da un ruscello dall’acqua cristallina, che grazie alla luce del sole creava delle pittoresche sfumature dorate e rosate. Il lieve gorgoglio dell’acqua che scorreva era un sottofondo musicale che, assieme al profumo dei fiori e delle erbe aromatiche presenti ai lati del sentiero, faceva sembrare il mondo intorno un’oasi di pace e tranquillità.
Poi c’era quell’albero al centro del giardino, il cedro… ogni sera ci giocavamo attorno prima di rientrare in casa. Con la sua corteccia rugosa e i rami che si protendevano verso il cielo, era il complice silenzioso dei nostri giochi.
Tutto questo, però, ci è stato portato via.
“Vorrei tanto poterti raccontare tutto, poterti dire chi sono e cosa mi è successo in tutto questo tempo. Ma non posso.
Convivere con questo silenzio è una cosa troppo grande per me. A volte penso che preferirei essere morta, vorrei non essere mai stata salvata… in tal modo non sarei costretta a doverti evitare il più possibile, oppure a guardarti fingendo che tu sia per me un completo estraneo.
Ciò che più di ogni cosa desidero è recuperare il tempo perso. Troverò un modo, lo giuro.
Ti prometto che non ti abbandonerò mai più, fratello. Mai più.”