Restless

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Il piccolo cumulo di pietre e catenelle atterrò sulla scrivania con un cupo tintinnio, scomponendosi sul piano di legno. Eliot lo fissò per alcuni istanti a denti stretti, togliendosi lentamente i bracciali inzuppati di pioggia.
Tutto sommato era un oggetto davvero insignificante.

“…allora siamo d’accordo? Questa è la nostra decisione finale?”
“Se tutto è perduto, faremo come abbiamo detto.”
“Possa Caliban ess- no, lasciate perdere. Vediamo che succede domattina.”
“Vediamo domattina.”
“Ora andiamo a dormire.”
Le tre annuirono, rivolgendosi l’un l’altra un’occhiata risoluta, ma stanca. Avevano discusso per gran parte della notte davanti a interminabili tazze di tè e cumuli di biscotti rinsecchiti in una minuscola posada poco distante dallo Huerto dove alloggiavano i loro compagni. Al polso di Vivi tintinnavano tre dei famigerati braccialetti che lentamente stavano facendo a pezzi le loro anime. Quello di Eliot, invece, manteneva ancora saldamente il suo posto.
“I nostri compagni sapranno stupirci, non dubitate.”
“Hanno fatto così tanto per noi…”
“È impossibile che non abbiano trovato una soluzione. Ce la faremo.”
Stavano per salutarsi quando la porta della posada si dischiuse e una ventata gelida invase la stanza.
Hari.
Hari?

Eliot si spogliò lentamente, disponendo con cura i suoi abiti fradici in un catino smaltato decorato con fiori dalle accese tinte khartasiane. Uno strumento così semplice, di uso comune, in cui la gente di casa gettava senza tante cerimonie la biancheria sporca…. eppure, a conti fatti, era anche una piccola opera d’arte.
Quel dannato braccialetto così vezzoso, invece, era stato anche una macchina di morte tascabile.

Ci volle relativamente poco tempo perché Vivi smettesse di piangere, o meglio, perché riuscisse ad addormentarsi piangendo, spossata e privata di ogni pensiero positivo. Artemisia si offrì di dormire accanto a lei; certo, Eliot aveva sempre tenuto stretta a sé Vivi durante il racconto di Hari, ma l’occhio esperto della cerusica aveva colto la discrepanza fra la tenerezza mostrata nei gesti verso l’amica e la smania incontrollabile che affiorava dai lineamenti del viso, pur tenuti debitamente a freno. La stanchezza aveva convinto Artemisia che, con le giuste condizioni ambientali, in quel momento Eliot avrebbe potuto incenerire ogni cosa nel raggio di miglia semplicemente sputandoci su: non sarebbe stato quindi per nulla sicuro che trascorresse la notte nella stessa stanza della giovane khartasiana inerme e affranta.
Ma, come Artemisia aveva giustamente intuito, Eliot non aveva nessuna intenzione di rimanere con Vivi; anzi, sgattaiolò fuori dalla posada non appena il respiro dell’amica diventò regolare.
Hari, colto da un’intuizione, decise di seguirla.

La grande tinozza era ricolma di acqua bollente, leggermente profumata, pronta per lei. Eliot si immerse fino alle spalle, chiudendo gli occhi, poi sprofondò sott’acqua raggomitolandosi. Nessun suono, solo il silenzio: per qualche attimo si aggrappò all’illusione di essere ancora nell’immensa stesa di nulla che aveva sempre circondato la sua vita.

Rimasero in silenzio, a lungo, spalla a spalla. Non c’era bisogno di dire nulla,dopotutto. Iker era morto e loro avrebbero vissuto. Ma.
“Una sola cosa avevo chiesto.”
“…”
“Una, cazzo.”
“…sì. Gliel’ho anche detto.”
“Quindi lo capisci, vero? Lo capisci?”
“Che intendi?”
Eliot si era voltata verso Hari, respirando a fatica.
“Hari guardami. Mi conosci, ormai. Spiegami, spiegamelo tu.”
“Cosa ti devo spiegare?”
“Come… Cosa… Perché…” Eliot sembrava non riuscire davvero a trovare le parole per esprimersi, e questo agli occhi di Hari era sinceramente strano. Non aveva ancora versato una singola lacrima, e anche questo era strano. Non aveva imprecato contro nessuno, non aveva bestemmiato alcuna divinità, né aveva dato sfogo a rabbia, frustrazione o disperazione. Non aveva praticamente parlato durante tutto il resoconto dell’accaduto, ma sembrava sul punto di esplodere. Non era certo di cosa pensare.
Lei prese un lungo respiro.
“Spiegami secondo te come posso giustificare adesso la mia presenza qui.”
“Di che stai parlando?”
“Se nemmeno dopo che hai cercato di spiegarlo, se nemmeno le persone che dovrebbero riuscire a comprenderti rispettano un tuo desiderio, perché, dimmi, PERCHÉ rimanere? A che serve avere il libero arbitrio se chiunque, perfino i tuoi amici, lo calpestano? Se nemmeno mettere dei limiti basta? Se la tua volontà non conta NULLA nemmeno per le persone che dicono di volerti bene?Insomma a che serve avere intorno gente che ti vuole bene, se non è diversa dal resto?”
“…”
“Dovrei essergli riconoscente, no? Stupida Eliot, non sprecare il cazzo di dono che ci ha fatto, non essere ingrata, rispetta la sua volontà eeeeeEEEE STIGRANCAZZI! Ma perché nessuno rispetta mai la MIA, di volontà? La NOSTRA volontà? Né fatui, Imperatori, abomini, reggenti, aristocratici, pezzi grossi… e nemmeno gli AMICI! Per la terza volta! Ancora e ancora e ancora!”
“…”
“Morire è un sollievo al confronto di dover portare il peso di questa morte sulle spalle per tutta la vita! Un peso che avevo implorato che non mi fosse dato! E che non fosse dato a nessuna di noi! E INVECE! INVECE, cazzo, INVECE!”
Hari restò in silenzio. Era proprio vero che ognuno portava le stesse croci in modo completamente diverso.
Il tempo passò.
“Che cosa vuoi fare?” le chiese.
“Non lo so più” rispose.

Eliot rimase in apnea finché non ebbe più fiato, poi riemerse inspirando a pieni polmoni, spezzando la quiete della stanza e spruzzando acqua sulle assi del pavimento. Il fuoco acceso crepitò leggermente, rilucendo sulle pietre del braccialetto che, silenzioso, attendeva al suo posto. Tutto tornò nuovamente tranquillo.

Non c’era nulla di tranquillo in quella stanza dove la Dinasta riposava per l’ultima volta. Non c’era nulla di tranquillo nelle parole di Artemisia. Nel destino del Capitano. Nella sofferenza della Grand Master. Nelle domande di Don Esteban.
Ma soprattutto, non c’era nulla di tranquillo nel suono dei braccialetti che cadevano in mezzo alla ghiaia, nella loro ritrovata libertà, nel perdono degli Imperatori. Eliot aveva preferito fingere che la storia fosse finita lì, sforzandosi di tornare efficiente nonostante si sentisse sempre spossata. Le loro anime non erano state risanate, dopotutto, e a questo si aggiungeva il peso dell’assenza di Don Iker.
Quello stronzo.
Decise di liberarsi almeno di un altro peso e si diresse verso la Grand Master. La giudicasse pure come preferiva. A questo punto niente aveva più l’importanza che aveva avuto fino al giorno prima.

La sabbia della clessidra scendeva inesorabile e l’acqua diventava sempre più tiepida nonostante il fuoco fosse ancora ben vivo. Qualcosa, da qualche parte, gocciolava dentro la tinozza. Forse fuori stava ancora piovendo.
Che si trovasse fra la gente o nel silenzio, le risposte continuavano a sfuggirle. Una volta l’Arconte Vassilj le aveva chiesto se era ancora la stessa Eliot appena partita dalle Lande Selvagge e sì, quella risposta la sapeva.
Tutto il resto, no.

Uscì dalla tinozza avvolgendosi in un grande asciugamano morbido e caldo e si sedette alla scrivania, fissando il braccialetto.
“Immagino che tu non abbia nessuna risposta, inutile paccottiglia che non sei altro.” Sorprendentemente, il braccialetto non rispose.

Qualcosa nel testamento della Dinasta le era rimasto in testa. Qualcosa a proposito di cadere, sì, ma non arrendersi. Di puntare sempre al meglio che si può fare. Ma, soprattutto, di non arrendersi mai. MAI.
Andarsene significava gettare la spugna su quelle terre e chi le abitava. Decidere che non ne valeva la pena. Sarebbe stato assolutamente coerente con i suoi principi salutare con affetto Hari, Vivi e tutti gli altri e far fagotto per esplorare altri luoghi, altre culture. Caponord, la meravigliosa Madrepatria, era stata una delusione sotto tanti punti di vista: non era la terra piena di sogni, bellezza e opportunità che lei e Hernando avevano sognato quando erano ragazzini, ma il triste crogiolo di infelicità di cui parlava Monna Celina. Fidarsi delle persone era impossibile. Quindi, perché restare?
Ma del resto, non aveva iniziato pure lei a mentire, a ingannare, a pensare come la gente di Caponord? Evidentemente sotto sotto non era diversa dagli altri. Iker, Vivi, Valérie e chiunque altro si inserivano perfettamente nella cornice, rendendo il quadro vivo e pulsante. La vera macchia era lei. O lo accettava e si regolava di conseguenza, o se ne andava e, di conseguenza, gettava la spugna anche con se stessa.

Eliot assestò un pugno al braccialetto, come se sperasse in una sua reazione, poi scosse la testa.
Mise l’ampio asciugamano ad asciugare davanti al fuoco e poi si avvolse in una caldissima e orribile vestaglia di flanella ricamata, ricevuta come compenso extra per un banchetto di nozze valdemarita direttamente dalla sposa (senza dubbio un regalo della pacchianissima suocera erigasiana).
Spostò il braccialetto con il dorso della mano su un angolo poi lasciò cadere sulla scrivania un grosso tomo impolverato su cui era impresso un titolo in caratteri pomposi e arcaici.
Codex Imperialis.

Esisteva un modo per rimanere coerente con se stessa a Caponord? C’era di sicuro, da qualche parte. Bastava trovarlo.
Sospirò, avvolse un asciugamano intorno ai capelli e li strizzò forte.
Via, ora mettiamoci al lavoro, pensò.

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