Terminò di stringere l’ultimo punto, poi tagliò il filo con un movimento esperto e asperse la ferita con un unguento rigenerante, prima di chiuderla con una garza ben pulita: al mattino sarebbe stata soltanto un’altra cicatrice tra le tante.
Alzò la testa dal proprio lavoro per gettare a Ottavia uno sguardo di riprovazione. – Non erano ferite così gravi, almeno per i tuoi canoni – commentò – Non c’era bisogno di una tale anestesia…
L’Alfiere del Crepuscolo rispose con un mugugno impastato. Era adagiata sulla branda sopra una pelliccia di lupo. Si era liberata dell’armatura incrostata di sangue e fango ghiacciato e indossava soltanto le brache, strappate in più punti dove le lame nemiche avevano trovato un varco, e la camicia sbottonata per permettere a Cristilde di svolgere il suo lavoro. Nonostante il gelido inverno avesse calato il suo morso sulla Scacchiera, l’interno della tenda era avvolto da un tenue tepore, grazie al braciere posizionato al centro dell’ambiente, in cui i tizzoni ormai anneriti si stava spegnendo pian piano. Una schiera di boccali rovesciati erano sparsi sul pavimento di terra battuta, svuotati fino all’ultima goccia, e l’odore alcolico dell’idromele impregnava l’aria, mischiandosi a quello asettico dei medicamenti della cerusica.
– Se continui così, finiremo le scorte di alcool delle salmerie ben prima di arrivare a Nebin, e addio alla paga aggiuntiva che ci ha concesso Ermete.
– Cuci e non rompere – borbottò Ottavia.
– Non rompo, ma è da ieri sera che sei in queste condizioni. Stamani non sei riuscita nemmeno ad alzarti dalla branda e mi sono dovuta occupare di nuovo io della consegna delle chiavi ai nostri Ragazzi. Mi piacerebbe dirti che questa volta, grazie al tuo nuovo metodo, Istrice o chi per lui non ha avuto rimostranze in proposito, ma mentirei… – Cristilde annodò la garza intorno alla coscia – E per la cronaca, ho appena finito di ricucirti!
– Davvero? Bene – Ottavia si sollevò su un gomito e mosse la gamba come ad assicurarsi che fosse ancora attaccata al resto del corpo. Non sembrava sentire dolore, ma Cristilde non era sicura che fosse tanto per l’efficacia dei suoi rimedi, quanto per la quantità di alcol che le scorreva in corpo – Cazzo, ieri sera eravamo bloccati dentro una cava di merda insieme a demoni imperiali, fungacci velenosi e zombie che scorreggiano fuoco… Non puoi biasimarmi se ho avuto bisogno di un goccetto in più! E comunque oggi pomeriggio ho affrontato un troll cazzuto anch’io, e quello stronzo continuava a rimettersi in piedi nonostante i nostri alchimisti lo tempestassero di acido e fiamme…
– E guarda come ti ha conciato!
– Alla fine se n’è andato, quindi ho vinto io, no? È giusto festeggiare una vittoria… mi versi altro idromele?
– Il barilotto è finito, e non ho nessuna intenzione di uscire al gelo per andare a cercartene un altro.
– Peccato.
Cristilde scosse la testa e cominciò a riporre i suoi strumenti chirurgici nella scarsella. La luce del braciere scemava sempre di più e per occuparsi degli ultimi tagli aveva posizionato una lanterna sullo sgabello accanto alla branda. Di tanto in tanto, lo schiocco del legno sconfitto dal fuoco infrangeva il loro silenzio.
– Cosa ne pensi di questa storia? – domandò infine.
– Penso che dovremmo dire ad Aldo e a Francisco di portare più barilotti vicino alla mia tenda per le sere a venire…
– Intendevo dello strano incubo che hanno avuto Vinicio e alcuni dei nostri nuovi Ragazzi – chiarì Cristilde, scoccandole un’occhiataccia. A volte Ottavia sembrava non prendere nulla sul serio. E forse, in condizioni normali, neanche lei si sarebbe preoccupata di un banale sogno… ma la Scacchiera non era un posto normale, e un sogno che si presentava identico in persone diverse, e che si era dimostrato estremamente accurato nel descrivere un rituale sacrilego avvenuto a Malacava chissà quanti anni prima…
Ottavia si sollevò a sedere sulla branda. – Se può darci qualche indizio su quel bastardo dell’Immacolato, come hai suggerito a Ermete, ben venga! Altrimenti… – si strinse nelle spalle. – Beh, ognuno ha i suoi incubi – sentenziò.
Dannatamente vero. Cristilde si svegliava spesso nel cuore della notte, madida di sudore, il cuore che le martellava nelle orecchie e un grido roco che le raspava la gola, cercando di aprirsi la strada per uscire. Per un periodo era stata meglio, quando aveva raggiunto la Scacchiera insieme a Ottavia, quando aveva pensato di potersi lasciare definitivamente il passato alle spalle.
Poi nelle ultime lune erano ricominciati, più frequenti e più terribili di prima.
– Spesso non ricordo cosa ho sognato – ammise.
– Io sì – replicò Ottavia, lo sguardo che si perdeva nel vuoto – Nei miei sogni c’è sempre lei… Amanita… – al pronunciare quel nome, la voce le si spezzò in un singulto, e si coprì il volto con le mani. Quando tornò a guardare la cerusica, i suoi occhi erano sgranati e iniettati di sangue, ma dolorosamente asciutti. Gli occhi di chi ha già pianto tutte le sue lacrime. – E’ sempre accanto a me, eppure allo stesso tempo la sento scivolare via pian piano… a volte, per quanto mi sforzi, non riesco più a mettere a fuoco il suo volto… come posso dimenticare il suo volto?
A quella domanda disperata, Cristilde tacque. Razionalmente avrebbe voluto far notare a Ottavia che sfondarsi di alcol tutti i fottuti giorni che gli Astri avevano messo in terra per dieci anni, e spesso più volte nello stesso giorno, non fosse un toccasana per il suo cervello e la sua memoria. Ma non era questa la risposta che l’Alfiere voleva, e soprattutto quella di cui aveva bisogno.
E poi, come si poteva applicare la razionalità a quel complesso concentrato di contraddizioni che era la mente umana?
– Il tempo è un fiume che scorre senza posa, ed erode i suoi argini come i ricordi – mormorò, abbassando lo sguardo sugli strumenti chirurgici – Anch’io a volte faccio fatica a ricordare i volti di chi mi stato caro.
Il volto del suo vecchio amico partigiano, Jack Caddaren, che in cuor suo aveva già dato per morto, e proprio a Malacava ne aveva avuto la conferma. Il volto di sua madre, con una gentile cuffia bianca in testa. Il volto di quel bastardo di suo padre. Il volto luminoso della sua cuginetta Miralys. Persino il volto dell’uomo che aveva amato con tutta se stessa, prima che la guerra se lo portasse via insieme alla sua innocenza.
Non esistono innocenti in un mondo di sopravvissuti.
– I dettagli si perdono e rimangono solo sensazioni – proseguì a bassa voce – Il calore di una mano sulla tua, il profumo di una carezza in una sera di primavera, lo zampillio di una risata luminosa. Mi rimane poco altro di lui.
Ottavia emise uno sbuffo graffiante. – A me sono proprio i dettagli che rimangono e che vedo ogni notte: la gola candida tagliata, infissa nella picca, i capelli fulvi intrisi di terra e sangue, gli occhi sbarrati e vitrei che mi fissano mi accusano, perché non ero con lei quando è morta, no, quando è stata trucidata a sangue freddo insieme al bambino che portava in grembo! È questo che mi resta davvero di Amanita. Se solo potessi ricordarla come era prima, se solo…
Il suo dolore era così palpabile, in quel fiume di parole così inusuale per lei, che Cristilde lo sentì riverberare dentro di sé, come un pugno alla bocca dello stomaco che toglieva il fiato e stritolava il cuore. Avrebbe voluto abbracciarla e consolarla, anche se consolazione non c’era, o almeno non quella che poteva fornirle lei, per quanto lo desiderasse. Perchè l’unico modo sarebbe stato infrangere i divieti del tempo e dello spazio, per tornare indietro a quel giorno fatidico, e salvare Amanita dalle grinfie imperiali…
E subito dopo la fitta alle tempie, a tradimento, a ovattarle le orecchie e a tagliarle le gambe. Sarebbe caduta, se non fosse già stata in ginocchio sul pavimento di terra battuta. Invece puntò i pugni sul terreno e strinse i denti, ricacciando indietro il malessere.
Non ora, maledizione!
Non ora che Ottavia era in quello stato. Già l’aveva fatta preoccupare abbastanza la sera prima, quando nella vecchia miniera era quasi svenuta davanti a tutti. Per gli Astri, non avrebbe aggiunto altra sofferenza o preoccupazione al suo fardello!
Si costrinse a respiri profondi e regolari e la vista che le si era abbuiata di corpo, come in uno sbalzo di pressione, cominciò a tornarle. Rimise a fuoco gli spessi lembi della tenda, su cui la luce della candela imprigionata nella lanterna proiettava ombre tremolanti; la ruvida cassapanca di legno che conteneva i pochi bagagli dell’Alfiere; l’ultimo ammiccare morente del braciere.
Si azzardò a sollevare gli occhi su Ottavia: per quella volta non sembrava aver notato il suo mancamento, il volto sprofondato tra le mani, la mente annebbiata dall’alcol e spersa nel passato.
Tirò un breve sospiro di sollievo. Forse si trattava davvero di sbalzi di pressione, per quanto avesse già cercato di curarli con erbe e medicamenti appositi.
Forse no.
I semi purpurei che Vinicio e Xorba le avevano consegnato, come un regalo, erano ancora nella scarsella. Le ricordavano ciò che aveva promesso a loro e a Ottavia, e a se stessa: avrebbe fatto di tutto per non essere un peso per il suo Alfiere.
Se davvero intendeva seminarli, come i nuovi Ragazzi suggerivano, non c’era posto migliore di Nebin.
Finse di finire di sistemare con meticolosità i suoi strumenti nella scarsella e, quando fu sicura che il malessere fosse cessato del tutto, si azzardò ad alzarsi. Rimase qualche istante a fissare Ottavia, incerta sul da fare, in attesa… di cosa?
Già, se solo…
Se solo fosse riuscita a dirle quanto per lei fosse importante. Quanto fosse bella, anche ubriaca fradicia come quella sera, con addosso delle semplici brache a brandelli e una camicia sdrucita, con il chiarore della lanterna che metteva in risalto ogni curva del suo corpo e trasformava il suo volto nel più meraviglioso dei quadri. Quanto la amasse -maledizione a lei!-, fin dalla prima volta in cui l’aveva incontrata, in barba a ogni razionalità e buon senso.
Se solo a Ottavia ciò fosse importato.
Con un grumo doloroso bloccato tra lo stomaco e la gola, e il desiderio struggente anche solo di sfiorarla, si costrinse a distogliere lo sguardo. Meglio allontanarsi, nel caso il malessere si fosse ripresentato.
– Cerca di riposarti. Domani partiamo per Nebin, e la via è lunga in questa stagione – si limitò a pronunciare, quindi fece per andarsene.
– Cris!
La voce la inchiodò sul posto e la costrinse a voltarsi. Quando Ottavia la chiamava con quel nomignolo -e soltanto lei lo faceva-, ogni volta il cuore di Cristilde sembrava sul punto di fermarsi, per poi riprendere a battere con maggior forza.
La guerriera la stava fissando a sua volta, e in quell’attimo apparve vulnerabile come una bambina, una domanda inespressa che si dibatteva nel suo sguardo.
– Non voglio dormire da sola stasera – mormorò.
Si allungò a stringerle il polso e la attirò verso di sé con decisione. Cristilde non provò neppure a contrastarla -era quello che voleva disperatamente anche lei, per gli Astri!- e i loro corpi si scontrarono mentre crollavano entrambe sulla branda, alla ricerca l’una dell’altra.
– Rimani con me? – mormorò Ottavia con voce roca.
Cristilde sollevò la testa e annuì, pur sapendo che, tanto nel suo sonno quanto nel culmine del piacere, lei avrebbe pronunciato il nome di un’altra.
– Sempre – rispose, e spense con un soffio la lanterna, come se quel caldo bozzolo di oscurità che le ingoiava potesse in qualche modo nasconderle dal resto del mondo e da tutto ciò che cercasse di dividerle.