Si svegliò di soprassalto, un grido che le artigliava la gola, cercando la via per uscire. La testa le pulsava come se all’interno ci fosse annidato qualcuno intento a martellarla selvaggiamente. Rotolò sul giaciglio e crollò sul pavimento di terra battuta. Nella caduta si morse la lingua e il dolore, misto al sapore ferrigno del sangue, contribuì a strapparla dall’incubo che la braccava.
“Se solo riuscissi a ricordarlo…”
Si sforzò, come ogni volta, ma nella sua mente trovò soltanto gli ultimi stralci di sonno, che si dibattevano in un nero vuoto.
E il martellio dietro le tempie.
Feroce. Implacabile.
Poi, dopo un’ultima fitta trionfante, svanì, lasciandola senza fiato, raggomitolata su se stessa sul duro terreno, nella penombra dei carboni che languivano nel braciere, con una sola domanda che le frullava nella mente:
“Perché?”
Cristilde annaspò fino alla sacca da cerusico che teneva vicino al giaciglio, rovistò all’interno e tirò fuori alcune erbe. Se le ficcò sotto la lingua e inspirò a fondo, quindi si impegnò in ciò che le riusciva meglio per calmarsi: con meticolosità si controllò la frequenza del polso, la temperatura corporea e passò a esaminare i riflessi. Per un attimo considerò la possibilità di chiamare Anastasia e Iena, per farsi dare una controllata anche da loro, ma era inutile trascinarli giù dal giaciglio nel cuore della notte. Sapeva già cosa avrebbe trovato.
Assolutamente nulla, a parte una frequenza cardiaca accelerata, tipica di qualcuno appena uscito da uno stato di profonda agitazione psico-motoria.
Con un sospiro, si sollevò a sedere sul giaciglio, la testa tra le mani. Nonostante ancora l’estate si sfogasse con le ultimi notti di afa, aveva l’impressione che la coperta fosse sempre fredda.
Erano davvero passate due lune, da quando Ottavia se n’era andata?
Da allora aveva ricevuto soltanto notizie saltuarie su di lei, dai racconti dei viaggiatori che l’avevano incontrata a sfondarsi il fegato in qualche taverna. Cristilde aveva considerato di chiedere a Cyra di scatenare la sua rete di informatori per sapere dove fosse e cosa stesse combinando, poi aveva rinunciato.
“Se avesse voluto che sapessi dove andava, me l’avrebbe detto. E poi, presto ricomparirà a Velathri.”
Di questo era sicura: Ottavia non avrebbe mancato quell’appuntamento. Il pensiero che lo facesse per i suoi Ragazzi, e non per lei… o piuttosto nella ben poco segreta speranza di poter finalmente uccidere Vinicio…
“Se si dimostrasse che è davvero un imperiale e ci ha ingannato per tutto questo tempo, tagliargli la testa sarebbe una punizione ben più misera di ciò che merita. Ma se così non fosse… o se fosse stato un imperiale in passato, ma adesso non lo è più…”
Cosa avrebbe fatto in quel caso?
Non lo sapeva, ma una cosa era certa: Ottavia lo sapeva eccome!
Si passò una mano tra i capelli. Inutile pensarci prima del tempo. Velathri era ormai vicina, poco più di una settimana di viaggio. Bramava e temeva il momento in cui il Crepuscolo avesse raggiunto le mura della Borgata di Soldraco.
Ottavia sarebbe stata contenta di rivederla o l’avrebbe tenuta a distanza? Oppure l’avrebbe abbracciata, dicendo: – Grazie per aver guidato i Ragazzi fino a Velathri al mio posto, Cris. Sei un’amica!
E lei sarebbe rimasta in silenzio, senza risponderle: – Solo un’amica?-, sapendo che era tutto ciò che Ottavia aveva da dare, le lacrime che colavano dentro per affogarla in quell’abbraccio che feriva più di una coltellata.
Le erbe calmanti cominciavano a fare il loro effetto. Cristilde sentì i muscoli contratti che si rilassavano e una parte di lei fu lieta di essere sola nella tenda, senza testimoni dei suoi momenti di debolezza.
Com’era quel ritornello gardanita da taverna? “If I show my flaws, if I couldn’t be strong, tell me honestly: would you still love me the same? Se mostrassi le mie crepe, se non riuscissi a esser forte, dimmi onestamente: mi ameresti comunque?”
Forse, grazie ai semi che avevano piantato a Nebin in occasione del Campomagno, gli improvvisi episodi di malessere e gli incubi che la tormentavano si sarebbero risolti, rendendola di nuovo la cerusica efficiente di cui Ottavia e la masnada avevano bisogno. Eppure, dalla spiegazione di Mordecai in proposito – in effetti, dopo i primi dieci minuti di introduzione il suo cervello aveva abbassato drasticamente la soglia di attenzione –, aveva capito che non avrebbero germogliato prima di un anno.
Quindi aveva ancora parecchie lune davanti in cui arrangiarsi come poteva.
Un passo alla volta, si impose. Intanto doveva arrivare a Velathri tutta intera. Sapeva per esperienza che, una volta infranti, ci voleva una fatica mille volte maggiore a rimettere insieme i pezzi.
Si alzò e fece qualche passo. Oltre il lembo della tenda filtrava il grigiore indistinto che precedeva l’aurora, e il chiarore ceruleo della luna piena faceva scintillare la rugiada sui fili d’erba. Il campo del Crepuscolo era ancora silenzioso: un silenzio che sapeva di mancanza, perché non era stato così fino a poche lune prima. Fino a quando c’era Ottavia.
Dato che dubitava di potere – o volere – riprendere sonno, Cristilde andò a sedersi alla scrivania e prese a sfogliare un trattato medico. Un ripasso non guastava mai, e almeno avrebbe avuto qualcosa su cui concentrarsi per non pensare a Ottavia e al futuro.
Accoccolata tra le pagine e gli appunti, c’era una pergamena, su cui aveva vergato qualche frase di getto prima di addormentarsi, in forma di madrigale, a ricordo degli studi nella casa paterna prima di iscriversi all’Accademia militare.
Cristilde la fissò per un attimo, poi la accartocciò e la gettò a consumarsi lentamente tra le braci.
Ti ho cercata per tutta la mia vita
e quando ormai era tardi ti ho trovata,
il rimpianto è veleno di amanita
con tralci brucianti soffoca il cuore
che cade nell’occasione passata
come rugiada su un fiore che muore.
Pur indietro, quando qualcosa è rotto,
non si può tornare, e il mio dolore
della tua felicità sarà scotto.
Il vento soffia e l’estate si guasta
e tu non torni ancora alla masnada.
Quando partisti, come son rimasta,
a languir persa sotto la rugiada.