SUGLI SPALTI DELL’OVESTVALLO – PARTE II

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Il mattino la trovò sulla cima della torre, a dare le spalle all’alba che colorava di rosa l’oriente. Non c’era più niente da quella parte, per quanto la riguardava, solo brutti ricordi. Quando tornò nella sua stanza, la branda era vuota. Ottavia se n’era andata e Cristilde si chiese quando l’avrebbe rivista.

Poi si diede della sciocca. Rivedeva sempre i membri della guarnigione, presto o tardi: in piedi, o per orizzontale.

Il pensiero ebbe il potere di farle più male del solito.

Prese i suoi attrezzi e si recò allo spedale, dove era sempre accesa una fiamma per riscaldare l’ambiente e per sterilizzare i ferri del mestiere. Prese a controllarli con cura meticolosa, e quest’espediente riuscì a tenere a bada i pensieri per quasi tutta la giornata. Almeno fin quando iniziò a suonare la campana d’allarme.

Cristilde si passò intorno alle spalle la sua scarsella da cerusico e si precipitò all’esterno. Il sole stava calando all’orizzonte oltre il Vallo. Il cortile e gli spalti erano in fermento, veterani e nuove reclute accorrevano per armarsi. Si accostò al sergente del suo reparto per ottenere informazioni in merito.

– È stato avvistato un drappello di orchi – spiegò in fretta l’uomo – Un drappello ben nutrito. Si dirigono in fretta contro di noi, approfittando delle ombre del crepuscolo. I nostri ricognitori hanno scorto anche un gigante tra le loro fila. Tieni pronti i tuoi ferri, segaossa!

Cristilde annuì, si armò di ascia, per ogni evenienza, e si posizionò in seconda fila nel cortile, per accorrere dove ci fosse stato più bisogno.

I nemici non tardarono ad arrivare. Ormai avevano capito di essere stati scoperti e non si curavano più di nascondere la loro avanzata. Anzi, gridavano e strepitavano, battendo i loro tamburi di guerra, per spaventare i difensori. Ma la maggior parte di costoro erano reduci e veterani della sanguinosa rivolta che aveva rovesciato i Quattro, e quei tentativi caddero nel vuoto.

– Arcieri! – gridò il sergente – Al mio segnale!

Gli arcieri sugli spalti tesero le corde degli archi. Un nugolo di frecce nere come corvi di sventura compì la sua spirale verso il cielo, per poi ricadere contro le orde nemiche.

Cristilde rimase immobile. Dalla sua posizione, riusciva a capire ben poco dell’andamento della battaglia. Vedeva gli arcieri scagliare un dardo dopo l’altro, i combattenti da mischia tormentare con impazienza le else, udiva le grida rabbiose dei nemici.

– Il gigante – urlava il sergente – Abbattete quel fottuto gigante…

Poi due enormi mani grigie come la pietra si aggrapparono agli spalti, frantumando la merlatura, seguiti da una fronte così grande che, da lontano, poteva sembrare il cucuzzolo di una montagna. Ruggendo di dolore, tempestato da frecce da ogni parte, il gigante si accasciò contro l’imponente muraglia.

Un grido di vittoria esplose tra i soldati della guarnigione, ma subito si spense in imprecazioni colorite.

– Che cazzo succede? – chiese nervosamente il giovane cerusico al suo fianco.

Cristilde aggrottò la fronte e non ebbe il tempo di rispondere. Un attimo dopo, la testa di un orco, con le sue grottesche pittura di guerra sulla pelle verde, si affacciò agli spalti, seguita da un’altra, un’altra ancora, e ancora. Una moltitudine.

– Stanno usando il corpo del gigante come scala per invadere gli spalti!

La battaglia si trasformò ben presto in un corpo a corpo frenetico. I combattenti da mischia caricarono per ricacciare gli invasori, gli arcieri dovettero interrompere il tiro per non rischiare di colpire i propri compagni. Gli orchi si arrampicavano come locuste affamate e sciamavano tra gli spalti con pazza ferocia, incuranti delle tremende perdite, tranciando tutto ciò che incontravano sul loro cammino.

– Merda! – imprecò Cristilde. Nel normale svolgimento della battaglia, i feriti venivano recati nelle retrovie, presso i guaritori, ma ormai la mischia era troppo convulsa e la cerusica vedeva i soldati cadere l’uno dopo l’altro e venir calpestati dai loro stessi compagni. – Ragazzi, mano alle bende: interveniamo!

Si slanciò sui gradini che salivano agli spalti. Un orco che aveva superato la linea di difesa e stava infierendo su un soldato caduto si voltò verso di lei, snudando i denti, ma cadde abbattuto dalla sua ascia. Cristilde si inginocchiò accanto al ferito e appose rapidamente una benda emostatica sulla tremenda ferita che gli apriva il ventre, per poi lasciarlo ai suoi sottoposti. – Portatelo indietro, dannazione!

Era una carneficina. Un paio di punti in fretta e furia su un torace squarciato, una benda intorno a un braccio penzolante. Cristilde faceva del suo meglio per rimettere in piedi i soldati ancora in grado di combattere, ma gli orchi continuavano ad arrivare a frotte. Ed era molto più rapido tranciare un vita che rammendare le ferite.

Si accorse di essersi spinta troppo avanti, per frenare l’emorragia di un reduce a cui un colpo di falcione aveva quasi amputato una gamba. La linea di difesa intorno a lei aveva ceduto, e un imponente orco armato di picca le si fece incontro. Le mani ancora intorno al laccio che stava stringendo intorno all’orrenda ferita, Cristilde non aveva modo di difendersi. Non senza una punta di sollievo, attese che il nemico sferrasse il colpo.

La punta della picca si conficcò in profondità nella carne.

Cristilde sbattè le palpebre. Una sagoma si era frapposta fra lei e l’orco, subendo l’attacco al posto suo. Impiegò un attimo a riconoscere la figura stagliata contro il sole del tramonto.

Ottavia emise un ruggito feroce al pari di quello dell’orco stupefatto. Roteò lo spadone intorno alla testa con entrambe le mani e tranciò di netto la testa del nemico, mandandola a rotolare oltre gli spalti per la violenza del colpo. Poi poggiò la punta della spada sulla pietra e si accasciò in ginocchio. Il suo corpo grondava del sangue dei nemici abbattuti e delle numerose ferite che le costellavano le membra. Eppure, non sembrava qualcuno stanco e sconfitto. Piuttosto, un angelo guerriero che riprende fiato nel bel mezzo della battaglia.

– Avanti, cerusico, toglimi questa dannata picca dal corpo – masticò tra i denti.

Cristilde si riscosse e se le si accostò. Il ferro del nemico le aveva trapassato il fianco da parte a parte. Era uno spettacolo che avrebbe fatto vomitare una giovane recluta, ma Cristilde si limitò ad afferrare la picca con le mani rese scivolose dal sangue.

– Stringi questa cintura tra i denti.

– Fallo e basta!

La cerusica diede uno strattone secco e la picca fuoriuscì dalla carne con un gorgoglio e un fiotto di sangue. Subito premette una benda emostatica per tamponarlo. – Ce la fai ad arretrare da sola fino allo spedale? Gli altri cerusici stanno portano là i feriti…

– Arretrare? – Ottavia sputò quella parola come la peggiore delle offese – C’è una battaglia in corso, l’hai notato?

– E tu ti sei presa una picca nella pancia, l’hai notato? – ribattè Cristilde – Stai perdendo troppo sangue ed è un miracolo che tu sia ancora viva. Non sei più in grado di combattere.

La faccia di Ottavia parve accartocciarsi a quelle parole. – Non dire sciocchezze. Non lascerò che gli altri combattano da soli!

– E allora ti farai ammazzare come una stupida!

– Che cazzo vuoi che me ne freghi! – gridò lei di rimando. – Non mi importa di morire. Mai io devo combattere. Non posso fermarmi. Devo combattere, capisci? – le afferrò il polso e la fissò negli occhi, e per un attimo Cristilde vide incrinarsi la pazza ferocia che li animava, e dietro di essa scorse un abisso di disperazione.

Un riflesso della sua.

Esitò per un attimo, poi rovistò nella scarsella. Ne estrasse una siringa piena di un liquido incolore. – Farà male – disse.

Ottavia si concesse una smorfia. – Non più di quello che provo ogni volta che sono sobria.

Cristilde le conficcò la siringa nel braccio e premette lo stantuffo fino in fondo. – È un concentrato di adrenalina e rigeneranti. Costringerà i tuoi tessuti a una rapida riparazione, e la vasocostrizione sosterrà il tuo circolo sanguigno il più possibile.

Ottavia sorrise. Non si curò di ringraziarla, né Cristilde voleva che lo facesse, visto che con ogni probabilità la stava mandando a morire dopo che la donna le aveva salvato la vita. Lei si alzò e senza una parola tornò a gettarsi nella mischia, contro il sole che abbagliava basso, rapida come un tramonto. Come un bagliore vivente di luce che sfuggiva all’orizzonte nell’ultimo istante del crepuscolo.

Chi ama, non frena. Chi usa sì. Le aveva detto uno dei primi partigiani che aveva incontrato nelle Piane, poco prima di ingaggiare una sortita contro le truppe imperiali insieme alla compagna. Erano morti entrambi, e ormai Cristilde ricordava solo le parole, ma non riusciva a richiamare alla mente i loro volti. Il tempo sfumava i ricordi di quanti aveva curato e poi visto perire. O forse l’istinto di sopravvivenza.

La battaglia continuò sugli spalti per buona parte della notte, ma alla fine gli orchi vennero respinti. Esausta, ormai a corto di bende e di medicinali, Cristilde si assicurò che tutti i feriti venissero condotti allo spedale per ricevere le cure necessarie. I soldati sopravvissuti, adagiati sulle brande o al suolo in base alle loro condizioni, parlavano di una delle nuove arrivate – la mozza-teste bionda! – che da sola aveva abbattuto decine e decine di orchi, frenando la loro avanzata e dando tempo ai compagni di riorganizzare le difese e condurre l’offensiva decisiva. Ma quando Cristilde chiedeva se l’avessero vista cadere, scrollavano il capo. Nella mischia, alla fine, ognuno doveva preoccuparsi della propria pellaccia.

E poi la vide. Seduta su una branda insieme a un gruppo di feriti, coperta di sangue da capo a piedi, un braccio tenuto al collo da un lembo di stoffa di fortuna.

Però viva.

Anche lei la scorse e le fece un cenno con la mano sana per richiamare la sua attenzione. – Ehilà! – la apostrofò con un sorriso sornione – Te l’avevo detto che ti avrei dato un sacco di lavoro!

Cristilde, suo malgrado, non potè trattenere una risata di sollievo. Era assurdo, dopo quella tremenda battaglia, ma non riusciva a farne a meno. Perché accidenti era così contenta che quella donna insopportabile fosse ancora tutta d’un pezzo?

Perché mi ha salvato la vita.

Che altro?

– Tu sei pazza! – sancì quando riprese fiato.

– Cazzo sì! Senti, la medicina che mi hai dato prima era figa, ma… non è che hai anche un po’ di alcool con te? Questi tagli bruciano come le fiamme dell’inferno, e sono sicura che del liquore, di quello forte, però, li anestetizzerebbe una bellezza…

– Sei pazza! – ripetè Cristilde, scuotendo la testa e mettendosi a lavoro sulle sue ferite. Ci avrebbe impiegato un bel po’.

Nel frattempo, con la chiarezza del sole che squarcia le nubi dopo un lungo temporale, capì che con quella donna pazza e imprevedibile aveva solo due alternative: o ucciderla – o lasciarla morire, faceva lo stesso-, oppure innamorarsi di lei.

E dato che non le piaceva uccidere, non aveva scelta.

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