VII – Iscuto, Mese degli Elementi. Mezzanotte.

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“Poche ore ancora all’alba. E poi, il Sinodo. Cerimoniale predisposto, allestimento ultimato, relazione completata… ma tu, Mel’Ishnd, ti senti davvero pronta?”
Con questi pensieri in testa era scesa nella corte del castello, stringendosi in un’ampia mantella di lana, e aveva passeggiato ancora un po’, prima di decidere di coricarsi. Ormai aveva quasi fatto l’abitudine alle notti insonni. Ogni tanto si arrendeva definitivamente alla stanchezza e dormiva per ore e ore. Un sonno cupo, profondo e senza sogni. Non le dava sollievo, ma era indispensabile al suo corpo, che era costantemente sotto sforzo fisico e mentale.
C’era da mettere i bastoni fra le ruote ai Quattro del Sole Nero, da risolvere il problema del Custode delle Spade e da sciogliere l’enigma legato all’Oculus Aureus che da molti mesi ormai sovrastava le loro teste… e poi c’erano da fare i conti con la sua rabbia, con il ricordo di suo padre, con la paura che qualcun altro fosse il responsabile dei suoi mali e con la consapevolezza che Alehandro, il suo migliore amico, era profondamente adirato con lei. Rendersi conto di ciò le aveva fatto comprendere che il suo vaso era pericolosamente vicino a traboccare del tutto. Stava per capitolare. Le mancava poco. Troppo poco.
Ma non voleva pensarci. Si aggrappava a qualsiasi cosa, pur di tenersi su di morale e non cedere. Aveva scritto missive ottimiste e speranzose agli amici, negli ultimi tempi, per rincuorarli e spronarli a insistere nella loro lotta comune. Ma lei sapeva benissimo che stava mentendo a se stessa: la speranza era quasi spenta, in lei. Quel che la teneva in piedi erano un odio gelido e razionale e la sete di vendetta che la consumava di giorno in giorno.

Ora erano quattro giorni che non riposava adeguatamente, anche se nessuno avrebbe potuto dirlo con certezza.
Era giunta quella mattina, con un giorno di anticipo, per poter predisporre l’allestimento del Concilio che si sarebbe tenuto il giorno seguente. Aveva salutato tutti in modo piuttosto sbrigativo, ma non senza una velata cordialità nei modi. Aveva parlato poco e lavorato tanto.
E mai, mai, nemmeno per un istante, lo sguardo le era scivolato lungo la cinta muraria, in quel punto a sinistra della porta d’ingresso, dove qualcuno, ogni mattina, continuava diligentemente a posare un fiore appena colto.

Ma ora era sola. Era notte. Ci si era ritrovata davanti mentre era sovrappensiero. O forse desiderava passare di lì. Voleva ricordare, anche se questo avrebbe gettato sale sulla sua ferita ancora aperta, che pur tuttavia si ostinava a non voler guardare. Ma c’era. Slabbrata e ancora viva. Eccola lì, dinanzi a lei.
Quattro pietre e un fiore.

“William…”

Ancora non riusciva a comprender bene cosa significasse starsene in piedi dinanzi a una tomba.
Quando era ancora insieme alla sua tribù, i suoi morti erano stati affidati al Grande Deserto, che li aveva accolti, protetti e lasciati bruciare lentamente fino a consumarsi del tutto, per tornare a far parte delle sabbie dalle quali erano nati. Il Deserto stesso era grembo materno e pietra sepolcrale per i suoi figli.
Ma lei adesso viveva nell’Occaso. In quell’angolo di mondo, ogni luogo aveva un proprietario e un nome, tutto era diviso e frazionato, e ogni cosa doveva avere un suo posto dove stare. Anche i morti.
Per questo le sembrava così strano, così assurdo trovarsi lì a guardare quelle quattro pietre.
E così inutilmente doloroso, per giunta: a che scopo concentrare tutto il ricordo di qualcuno in un unico ricettacolo di tristezza e senso di vuoto? A che mai poteva servire? Per pregare meglio per lo spirito di chi non c’era più? O piuttosto per poter tenere separati i propri sentimenti, e potersi dimenticare del proprio dolore non appena si fossero voltate le spalle al sepolcro?
Era dunque così che funzionava la mente della gente fuori dal Deserto?

Non lo capiva.
I suoi morti la seguivano ovunque. Erano tutt’intorno a lei, e ogni cosa che faceva non prescindeva mai dalla loro presenza, per quanto cercasse di difendersi dal dolore, che il tempo non aveva certo lenito, cercando di concentrarsi su ciò che avrebbe potuto vendicare (o rendere meno inutile) la morte dei suoi cari.

Raccolse il fiore, ormai appassito.
Sentiva la sua mancanza. La sentiva ancora, anche se ormai molte lune erano passate.
E la notte chiara che illuminava i petali vellutati del fiore le ricordò inevitabilmente un’altra luna, un altro tempo, un altro luogo.
Era stata la prima volta, per lei. Ma non ce ne sarebbe stata una seconda.  
Rabbrividì, ma non era il freddo che sentiva insinuarsi nel suo sangue.
Era un’immagine, nitida e chiara. Un ricordo. Tentò di scacciarlo con tutte le sue forze, ma ormai si era impossessato di lei, e fu costretta ad ascoltarlo fino in fondo.

Rivide le labbra scure che si posavano con delicatezza sulla sua pelle, le mani che si intrecciavano, gli occhi verdi che la carezzavano con lo sguardo. Il respiro, il tepore, il sussurro. La luna non aveva mai brillato tanto come quella notte.

D’improvviso si scosse. Asciugò gli angoli degli occhi, e ritornò seria. Dura. Ferita.
“Avevi detto che non mi avresti mai lasciata sola, e invece non sei voluto tornare. Né per la guerra, né per me. Hai lasciato tutto a metà.”
Strinse i pugni.
“Avresti dovuto finire quello che hai cominciato.”
Si morse le labbra.
“Sì, avresti dovuto finirlo, prima di andartene, o non cominciarlo affatto.”

Voltò le spalle al sepolcro e si avviò a ricontrollare il suo lavoro, con un nuovo peso nel cuore.

Un’altra pesante goccia scura era caduta dentro al suo vaso.

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Commenti

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4 comments

  1. finalmente sono venuta! ho passato quattro ore davanti al computer per leggere tutto, ma ne è valsa la pena! Aspetto con impazienza gli sviluppi…

  2. E certo… ma sai che al prossimo live il Bota fa rimettere PER INTERO la tomba del poro William?

    Mi sto già preoccupando…

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