Anno III
Nella penombra della sua cella, il ragazzo finiva di preparare la sua sacca da viaggio. Si passò le trecce che gli incorniciavano il viso sopra le orecchie, cercando di far mente comune su quanto aveva ancora da prendere con sé, e sbuffò infastidito. Era nervoso; si preparava ad un gran passo, e non poteva certo iniziare con qualche errore… Qualcuno bussò alla porta, e con passi svelti il giovane andò ad aprire; un anziano monaco gli sorrise, porgendogli un libricino rilegato in pelle.
– Aulay, intendevi lasciare il breviario delle preghiere?- fece il frate, mentre il ragazzo si affrettò a recuperare il breviario e a portarlo subito verso il suo zaino.
– Certamente no, padre Edgar, ma non riesco a ricordarmi tutto… sono un po’ preoccupato per questa partenza… – sbuffò Aulay, battendosi le mani sui fianchi come per cercare la concentrazione. L’anziano ridacchiò, poi gli fece cenno di seguirlo, cosa che il giovane fece subito con zelo. I due camminarono negli scuri corridoi del monastero, illuminati solo da sporadiche lanterne, parlottando a bassa voce.
– Hai dubbi? Sembrava che avessi tutto chiaro, nella tua testa… – sussurrò il monaco.
– No, sono certo sul da farsi – rispose l’altro. – La fondazione di questo nuovo ordine, i Messi dell’Orifiamma, è il segno che aspettavo da tempo! Adesso so come rendere onore alla mia terra ed alla mia fede, portando giustizia dove ce n’è bisogno, e facendo così porterò gloria al mio clan, al mio sept, ai miei genitori… e perché no! Potrei diventare anch’io qualcuno!
Il monaco annuì in silenzio. – Cosa sono tutte queste paure, allora?
Il ragazzo tentennò, mordendosi un labbro.
– Non sono bravo in niente, padre… Non ho la saggezza della badessa mia madre, né sono un uomo d’arme come il mylwar mio padre… Sono un ragazzo con la sua fede e la speranza di cambiare qualcosa, ma come può bastare questo?
Non ci fu nessuna risposta, e i due continuarono a camminare in silenzio, finché non arrivarono nel chiostro. Al centro di esso stava un grosso tavolo di quercia imbandito, presso cui stavano già seduti alcuni tra i monaci e le suore del monastero; altri erano intenti alla preparazione della cena, almeno a giudicare dal rumore e dalle risate che giungevano dalle cucine, mentre un piccolo gruppo di confratelli era intento ad accordare alcuni strumenti. Aulay trattene a stento la sorpresa a quella visione; la vita nel monastero non era certo ricca, sebbene non austera, e una simile organizzazione era certamente stupefacente.
– E’ stata un’idea di tutti, quando hanno saputo della tua partenza, e tuo padre e tua madre hanno contribuito… – gongolò il monaco anziano. – Se vuoi sapere in cosa sei bravo, qui avrai una risposta.
Aulay non trovò la risposta, quella sera, ma capì molto di sé e di quello che sarebbe andato a fare. La cena fu magnifica e deliziosa, tra chiacchiere varie e preghiere tanto solenni quanto vive e vibranti; e poi ci fu la musica. Musica popolare gardanita, quella da ballare fino a farsi venire il fiatone, in cui ti scateni e senti le energie del Calderone stesso fluire attraverso di te; Aulay aveva imparato a ballare lì al monastero, e aveva avuto sia uomini che donne come insegnanti. Erano in numero dispari, monaci e suore, e non c’erano abbastanza compagne per ogni ballerino; ergo, per questioni di necessità, gli uomini imparavano sia a condurre che a essere condotti, in quanto all’occorrenza ballavano tra loro fino al momento in cui non ci fosse stata una donna disponibile. E Aulay ballò con donne e con uomini, nella sua ultima sera al monastero, il giorno prima che il suo futuro iniziasse. E sulla strada che gli si parava innanzi avrebbe trovato mille difficoltà, si diceva in cuor suo, ma il ricordo di quella sera lo avrebbe sempre scaldato; se fosse arrivato in alto, se fosse divenuto qualcuno, lo avrebbe fatto per la sua gente e per merito della sua gente. Non importava cosa sarebbe successo, lui l’avrebbe affrontato, si sarebbe adattato come gli era stato insegnato nella danza come nella vita ma rimanendo sempre sé stesso.
A volte un ballo può essere solo un ballo, mentre altre volte può segnare la tua vita per sempre, in modo indelebile. Dietro ogni passo c’è una storia, dietro ogni nota un ricordo. Aulay lo capì quella sera, una delle tante piccole lezioni che avrebbe appreso da lì in poi…
Anno XVI
Il capitano Garreth Kerr era sempre l’anima di ogni festa, dicevano. La fama del giovane era nota in tutto il meridione di Gardan, e anche presso la capitale Lencoe il suo nome iniziava a essere nominato con rispetto e ammirazione per svariati motivi. Primo su tutti il valore militare, per il quale la festa di quella sera era stata organizzata; nell’ampio campo d’arme al centro di Oldmory si festeggiava la sua promozione da caporale a capitano per le mirabili azioni di guerra sulle Cime Guardiane con canti, balli ed abbondanti libagioni, e ai figli dell’Orsa si erano affiancati numerosi barbari delle montagne come graditi ospiti. Tutti parlavano di Garreth, di come era intervenuto nell’assedio subito dal protettorato di Kaalon e lo aveva spezzato con un manipolo di soldati, usando una grande avvedutezza tattica e una mirabile perizia d’arme. L’altro motivo per cui il ragazzo era conosciuto, comunque, era proprio la sua capacità di ravvivare ogni festeggiamento; sapeva ballare e suonare abilmente, era impossibile resistere alle sue battute e le dame apprezzavano molto la sua compagnia. Il suo spirito cameratesco, ciò che lo rendeva un’ottima guida in battaglia e un punto di riferimento per i soldati sia dentro che fuori dalla caserma, trovava grande sfogo nelle occasioni mondane e fra tutti i Kerr si diceva che ogni festa avrebbe avuto un ottimo esito se Garreth avesse presenziato.
Quella sera Garreth era inquieto, però. Gli era sempre sembrata strana quella capacità, sua e del suo popolo, di gettarsi alle spalle le amarezze in un istante e di festeggiare invece i successi ottenuti. Pochi giorni prima molti erano caduti in battaglia, e solo il giorno precedente i sacerdoti dell’Orifiamma avevano officiato i solenni funerali; eppure, a così breve distanza, già si celebravano invece i successi d’arme, come se il peso di quelle morti fosse improvvisamente svanito. “Il coraggio si accresce intorno ad una ferita”, diceva il motto dei cavalieri erranti; che ci fosse quindi bisogno di sentir dolore, per sapere cos’era il piacere? Non c’era gloria, senza la morte di qualcun altro come paragone?
Garreth buttò giù l’ennesima pinta di birra alla luce dei falò, e si alzò gridando, incitando i suoi uomini alla danza. Un ricordo gli aveva attraversato la mente e gli aveva fatto sbocciare di nuovo il sorriso. Era poco più che un bambino, allora, e stava ricevendo i primi rudimenti sia di vita militare che di educazione cortese. Era sua madre stessa ad occuparsi di quest’ultima, ed era in quegli anni che Garreth aveva maturato la sua abilità nella musica e nella danza; si ricordò di lunghe lezioni in cui dovette memorizzare passi su passi, imparare a condurre la propria compagna e a sentire la musica non con le orecchie ma con i piedi. Ingenuamente lo chiese, a sua madre:
– Madre, io diverrò un guerriero! Cosa mi serve imparare a ballare?
La madre gli prese il viso fra le mani e gli depose un delicato bacio sulla fronte. La sua voce era delicata come un’alba di primavera.
– Perché nella vita abbiamo bisogno di tutto, Garreth. Nessuno sarà mai il migliore in tutto, ma un figlio dell’Orsa e specialmente un Kerr deve almeno essere il migliore in più cose possibili. E non per primeggiare e stare sopra gli altri, ma perché a chi più si impegna arriva la felicità. Ricorda sempre di essere felice, Garreth, in ogni giorno della tua vita…
E Garreth ballò, quella sera, con i suoi soldati e con tutte le donne che incontrò; ballò con i barbari le loro danze scalmanate intorno al fuoco, e bevve i loro potenti liquori. E trovò una donna dai capelli corvini, bella come una dea e forte come un toro, che guidava quei barbari e spiccava fra loro; ballò con lei al ritmo dei tamburi delle montagne e delle cornamuse di Gardan, ed insieme coinvolsero tutti i presenti ad unirsi a loro. L’alleanza fra i due popoli fu rinsaldata, quella sera, e Garreth si disse che la sua felicità era la felicità del suo popolo, ed ogni momento degno di vivere per lui avrebbe reso maggior gloria alla sua gente ed alla sua terra. L’avrebbe attesa, la gioia vera, ed avrebbe vissuto al massimo delle sue capacità fino a quando questa non sarebbe arrivata.
Quella sera, Garreth non sapeva che la felicità sarebbe arrivata dieci anni più tardi, quando il dolore della scomparsa di suo padre sarebbe stato squarciato da una visione di trecce bionde e dalla voce angelica di una figlia del suo popolo.
Anno XIX
Nell’ampio salone della reggia di Tomiloch la tensione era palpabile. Da poche settimane era avvenuta la dipartita del Bùnaidh Benedict Cleeland, e in molti si interrogavano su quale sarebbe stato il futuro del clan. In molti presagivano che il ballo indetto per quella sera avrebbe indicato quale sarebbe stata la strada attraverso cui la reggenza dei Cleeland sarebbe passata; dopotutto Lady Olivia, primogenita e attuale Bùnaidh, era nubile e in molti desideravano quella mano per salire sullo scranno più alto del clan. In molti si ricordavano i balli precedenti in quello stesso salone; la giovane donzella era stata invitata a danzare dai rampolli di molte nobili famiglie, e lei aveva accettato sotto lo sguardo attento del Bùnaidh suo padre. Nelle sue ricche vesti fluenti, elegante come la più raffinata tra le dame, Lady Olivia aveva volteggiato leggiadra seguendo i passi dei suoi accompagnatori, e di sicuro nessuno poteva dire che non se la cavasse egregiamente; eppure, chi la guardava sapeva che c’era qualcosa di strano in lei. Prima di tutto, nel suo aspetto c’era sempre un dettaglio fuori posto, per quanto spesso quasi invisibile: un laccio di un colore troppo acceso, orecchini fuori luogo, una ciocca di capelli di una qualche strana tinta, qualcosa che dava nell’occhio minimamente ma che attirava l’attenzione. E poi, il modo di ballare di Olivia era particolare; preciso, perfetto, ogni passo era al suo posto, senza errori né sbavature, eppure proprio per questo risultava meccanico ed artificioso. Non c’era trasporto nei balli di Olivia, nessuna ispirazione, niente del fuoco che invece animava le danze tipiche gardanite, solo una sequenza di passi consecutivi da eseguire come una procedura. Il Bùnaidh osservava, attento, quindi congedava ogni compagno della figlia con fare cortese. In questo modo, ancora nessuno era riuscito a sposare Lady Olivia, ma adesso Lord Benedict non c’era più, e qualcosa quella sera sarebbe cambiato…
L’ingresso di Lady Olivia fu sottolineato dal pesante tonfo delle porte che si aprivano, seguito da un’ondata di clamore che fece voltare tutti i presenti nella sala. La Bùnaidh non era vestita con gli eleganti abiti che si confacevano ad una dama in un evento mondano, come sempre era accaduto finora, bensì era avvolta in un lungo cappotto bianco ricamato con motivi azzurri e argento, tra i quali spiccava il simbolo dell’Accademia dei Mestieri; sotto di esso, vestiva semplici abiti da artigiana, e i capelli sciolti erano fermati con un bizzarro paio di grossi occhiali. Con voce allegra, la donna si scusò:
– Perdonate il mio ritardo, messeri!
A larghi passi arrivò sullo scranno dei Bùnaidh in cima alla scalinata che dominava il salone, e si sedette con cura afferrando saldamente i braccioli; con un gesto rapido della mano, la donna ordinò alla banda di iniziare a suonare. Con l’inizio della musica, alcune coppie si portarono al centro della sala iniziando a ballare, ma gli occhi dei più erano rivolti a Olivia, che con aria soave contemplava i ballerini; un misto di incredulità, di sdegno, di curiosità e interesse animava i Cleeland assiepati nella sala innanzi a quella bizzarria. Un giovane in un’elegante cotta d’arme azzurra, con fare incerto, salì le scale fino a portarsi innanzi alla Bùnaidh, e lì le rivolse un profondo inchino.
– Lady Olivia, mi concede l’onore di questo ballo?
– No, ma grazie lo stesso.
La risposta di Olivia sembrò stordire il ragazzo, che scese le scale quasi barcollando. Il sorriso della donna era enigmatico, ma quanto mai compiaciuto in quel momento. Un secondo giovane, un marcantonio dalla mascella squadrata e una zazzera bionda, salì le scale con passo deciso, stavolta, e il suo inchino fu vigoroso quanto il suo invito.
– Lady Olivia, mi concede l’onore di questo ballo?
– No, ma grazie lo stesso.
Un secondo pretendente allo scranno dei Cleeland fu mandato indietro, ed il sorriso sul volto della Bùnaidh si allargò sempre di più. In molti pensavano che la dipartita di Lord Benedict avrebbe cambiato qualcosa, e quella sera si resero conto che probabilmente mai nessuno avrebbe affiancato lady Olivia nella sua guida. Nel ricordo dei presenti, ben undici pretendenti furono rifiutati da una Olivia tanto mite quanto serena, che non prese parte ad alcun ballo, quella sera. Capirono che quella era la loro Bùnaidh, e da quella sera la ammirarono e la rispettarono.
Anno XXI
Respiro.
Respiro.
Respiro.
Aveva affrontato mostri temibili, aveva fronteggiato pericoli incredibili, era sopravvissuta alle prove più ardue, eppure temeva ancora suo padre. Logan se ne stava in disparte in un angolo del salone mentre la musica suonava allegra; erano lì tutti per lei, stasera, per festeggiare il suo ritorno, per celebrare la sua nomina ad Asso dei Cavalieri della Spina d’Acciaio. Con le sue azioni, si era dimostrata la più degna a comandare l’ordine cavalleresco che era il fiore all’occhiello del Ducato dell’Orsa Bianca; aveva recato doni antichi, sepolti nel tempo e strappati alle leggende stesse, e aveva offerto ai Numi come omaggio i feticci delle bestie più tremende che aveva sconfitto. Eppure, tutto il coraggio che le gonfiava il petto in battaglia non era sufficiente per affrontare Erik MacDussel.
Erano passati otto anni ormai dalla sua fuga da corte, e molte cose in lei erano cambiate; era pronta ad accettare il ruolo che il suo Ducato le avrebbe dato un giorno, e non vedeva più questo evento come una condanna ma come un onore. Il suo popolo la amava per come era, libera ed irruenta, e lei desiderava renderlo fiero con ogni sua azione. Eppure, con suo padre era diverso. Da quella fuga, quando solo quattordicenne Logan fuggì di casa ed il Duca Erik fu costretto a riprenderla, qualcosa era rimasto in sospeso tra loro. Qualcosa che non si sarebbero mai detti, orgogliosi e testardi entrambi, e che sempre avrebbero percepito in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni parola; qualcosa che si era infranto e che non sarebbero stati capaci di aggiustare.
Rigirando il boccale di birra fra le mani, la testa persa nella musica, Logan pensò a quello sguardo. Tornata da quell’erranza lunga un anno, suo padre l’aveva accolta a Lencoe nel ruolo di Frenin di Gardan. Le sue parole erano quelle di un cavaliere orgoglioso di un suo pari, i suoi gesti quelli di un sovrano che accoglieva il ritorno di un eroe, ma i suoi occhi erano quelli preoccupati di un padre, quelli spaventati di un genitore che non vedeva la figlia da così tante lune, quelli furenti di chi avrebbe voluto sapere come stava il sangue del suo sangue e non poteva. Quello sguardo la lacerò. Erano tutti lì a ballare per lei, e lei non riusciva a goderselo.
– La birra si riscalderà, così.
La voce di Erik MacDussel destò Logan dai suoi pensieri. Si sentì rabbrividire, vedendo il padre torreggiare in piedi innanzi a lei, lo sguardo serio, le mani serrate dietro la schiena. Si chiese se sarebbe mai uscita dalla sua ombra, e un ghigno le increspò il volto.
– Sono certa che la birra è la prima fra le vostre preoccupazioni stasera, padre…
Non ci furono altre parole. Il Duca si limitò a porgerle la mano, in silenzio. Negli occhi fieri, una muta richiesta. Logan lo guardò di rimando, posò il boccale e prese la mano con forza. Il padre la tirò su quasi di scatto, fino a farla sbattere contro il suo petto; era forse uno dei pochi uomini a Gardan che poteva farcela. Se suo padre voleva una sfida, Logan non si sarebbe certo tirata indietro.
Le doti di ballerino di Erik MacDussel erano note a tutta la corte, ma quello che tutti videro fu senza precedenti. Non era un ballo, ma una battaglia; i passi si incrociavano con la forza di un esercito in marcia, ogni cambio di direzione era un affondo, e le note su cui danzavano erano il clangore di lame e asce. I due quasi non si guardavano, mentre ballavano, se non per occhiate fugaci che riaccendevano il fuoco di quella sfida. Nessuno avrebbe ceduto per primo, nessuno avrebbe sbagliato. Ballarono sino a notte fonda, e le altre coppie nobili si assecondarono al loro fianco nei vari pezzi, ma nessuno resistette quanto loro. Il salone era ormai vuoto quando i due si fermarono.
– Non avete vinto, padre – disse Logan, con il fiato rotto.
– Non volevo vincere, Logan – rispose il Duca ansimando, con un debole, triste sorriso.
Anche Logan sorrise, e lo sguardo le si addolcì per un singolo istante. Appoggiò la testa sulla spalla del padre, e sentì la testa liberarsi delle sue paure. Era riposante e rassicurante.
– Un ultimo giro? – sussurrò la ragazza.
– Un ultimo giro – concluse suo padre.
Anno XXVI
– Siete emozionato, Lord Fineal?
Il giovane non rispose alla domanda del suo servitore, ma si limitò ad un debole sorriso, concentrato com’era nella sua opera. Già era difficile accordare il suo strumento in condizioni normali, figurarsi su una traballante carrozza che cigolava ad ogni giro di ruota. Eppure doveva dare il meglio di sé e rendere onore al suo clan; era stato chiamato quella sera a suonare in occasione della Fiamma degli Arditi presso il Regio Conclave di Venceslot, e avrebbe accompagnato i balli delle corti dell’Orifiamma riunite. Era qualcosa di molto importante sia per lui che per i Munroe, specialmente adesso che erano da poco divenuti un clan e dovevano dimostrare appieno il loro valore. Il sorriso si fece largo sul suo viso, malinconico e triste; come avrebbe voluto che suo padre fosse lì a vederlo, quella sera… Avrebbero gioito assieme, avrebbero reso onore ai Munroe, il vecchio thane e il nuovo Bùnaidh, insieme per la gloria dell’Orsa Bianca… Suo padre era disperso chissà dove, ma lui non si sarebbe scoraggiato. Avrebbe fatto tutto quello che c’era da fare, per il suo clan, e avrebbe suonato meglio di qualunque altra volta precedente, e tutti avrebbero ballato alle sue note e…
La carrozza si fermò lentamente. Erano vicini a Venceslot, pensava Fineal. Da fuori, sentì la voce del cocchiere parlare con un uomo, e il trottare di un cavallo che si avvicinava alla finestra del carro. Quello che sembrava un messaggero gardanita, trafelato, si accostò a lui e lo guardò con occhi dolenti.
– Lord Fineal, ho notizie per voi. Vostro padre, sir Hector Munroe…
La chitarra cadde di mano al giovane, mentre gli occhi gli si riempirono di lacrime, in un attimo di muto, eterno, squassante dolore.
Fu così che Fineal apprese della morte di suo padre, segnandolo per sempre. Questa è la storia di Lord Fineal e di un ballo che per lui non ebbe mai luogo.
Ma quanto sono belli i bùnaidh di Gardan! (Certo, c’è sempre un grande assente che a sto punto dubitiamo esista… XD)